
cosa si mangia a natale... |
SPECIALE NATALE -
SPECCHIO ROMANO |
Il panpepato, una
delizia con o senza cioccolato
 Il
panpepato è un dolce per le feste di fine anno che vanta origini molto antiche,
anche se nel corso del tempo la ricetta ha subito significative variazioni. Un
suo antenato era il "melatello", a base di farina e di acqua melata, ossia
l’acqua con cui si sciacquavano i recipienti che avevano contenuto il miele. Se
si vuol restare il più vicino possibile alla tradizione, si dovrebbero impastare
20 grammi di lievito di birra con acqua o vino cotto e 200 grammi di farina, per
ottenere una pasta come quella del pane, solo un po’ più morbida, a cui
aggiungere gherigli di noce, nocciole, mandorle e pinoli, tutti sminuzzati, uva
passa ammollata e strizzata, canditi a pezzetti, cannella e noce moscata, un
etto e mezzo di miele e un cucchiaino di pepe macinato. Se ne fanno delle
pagnottelle che, dopo una notte di lievitazione, si mettono a cuocere in forno a
200° finché non risultino ben dorate. Una volta questo dolce compariva nei
banchetti più lussuosi. Oggi, però, si presenta per lo più di colore scuro,
dovuto all’aggiunta di 350 grammi di cioccolata amara grattugiata.
Secondo alcuni,
l’etimologia del nome non sarebbe da ricercare nell’utilizzo delle spezie,
soprattutto il pepe, ma si riferirebbe a "pan del papato", in considerazione
della nobiltà dell’alimento, degno della tavola dei più alti prelati.
di
Cinzia Dal Maso
|
SPECIALE NATALE -
SPECCHIO ROMANO |
E’ tempo di preparare
il pangiallo di Natale
In
attesa del Natale, è ora di preparare il pangiallo, squisito dolce tipico di
Roma e del Lazio le cui origini sono da ricercare nell’antichità. Già Apicio,
nel suo manuale di epoca imperiale, descriveva un dolce facile da realizzare in
casa con ingredienti simili, che però erano semplicemente mescolati e non
venivano cotti.
Per preparare un
buon pangiallo si fanno sciogliere 20 grammi di lievito di birra in due dita di
latte tiepido, quindi si mescolano con duecento grammi di farina e poca d’acqua,
fino a ottenere una pasta un po’ più morbida di quella del pane. Ora vanno
aggiunti tutti gli altri ingredienti: 100 grammi di miele, 200 di mandorle, 200
di nocciole, 200 di uva passa ammollata e strizzata, 200 di canditi tagliati a
dadini, 200 di noci sgusciate e sminuzzate, 200 grammi di fichi secchi privati
del picciolo e tagliati a pezzetti, 100 grammi di pinoli, mezzo cucchiaino di
noce moscata e mezzo di cannella grattugiate. Si impasta ben bene con le mani e
si lascia riposare per un’intera notte in un luogo tiepido. Al mattino la pasta
sarà cresciuta e va lavorata ancora un poco. Se ne può fare un’unica pagnotta
ben schiacciata oppure due o tre pagnottelle più piccole, da disporre sulla
carta da forno. Ora non resta che fare una pastella non troppo soda con acqua,
farina, un cucchiaino di zucchero e uno d’olio e spalmarla sulla superficie del
dolce prima di infornarlo e di cuocerlo, a 180 gradi, fino a che non assume un
bel colore dorato, facendo attenzione a non bruciarlo sotto.
E’ Filippo
Chiappini a spiegarci il motivo del nome: "anticamente si copriva al di fuori
con acqua di zafferano, e da ciò venne il nome di pangiallo".
di
Cinzia Dal Maso
|
SPECIALE NATALE - SPECCHIO ROMANO |
UN PIATTO DELLA VIGILIA DI NATALE,
LE CIRIOLE CON I PISELLI
Sulle tavole delle
nostre nonne era un pesce piuttosto frequente e abbastanza
economico, d’obbligo nel cenone della vigilia di Natale: sono le
ciriole, le piccole anguille che si pescavano nelle acque del Tevere
e che probabilmente si pescherebbero ancora, se fosse consentito.
Oggi si possono tranquillamente sostituire con le più sicure
anguille del lago di Bolsena, o con le "inguille di Comacchio", come
le chiamava Giuseppe Gioachino Belli. Le anguille vanno decapitate,
private delle interiora, tagliate a pezzi lunghi circa 5 centimetri,
sciacquate con cura e asciugate con un canovaccio. In un tegame si
mettono a rosolare nell’olio extravergine di oliva uno spicchio
d’aglio e qualche cipollina novella tritati finemente e si fanno
imbiondire, quindi si aggiungono i pezzi di anguilla e si fanno
dorare. Si sfuma con un bicchiere di vino bianco secco, poi si mette
nel tegame anche un cucchiaio di passata di pomodoro. Dopo qualche
minuto si uniscono dei pisellini verdi sgranati (ne bastano mezzo
chilo per un chilo di anguilla). La cottura deve proseguire a fuoco
lento e tegame coperto, controllando sempre che il liquido non si
asciughi troppo e aggiungendo, all’occorrenza, un mestolino di acqua
calda.
di Cinzia
Dal Maso |
SPECIALE NATALE
- SPECCHIO ROMANO |
La
Vigilia di Natale a Roma.
La poesia della tradizione
Anche se
oggi i romani non hanno più lo stomaco "foderato de bandone", come
nell’Ottocento, restano fedeli alla tavola "de casa nostra"
 Il
cenone della sera della Vigilia di Natale è un’antica tradizione,
che ancor oggi sopravvive in molte famiglie romane, fedeli a
un’usanza con cui il presente si ricollega con un passato nel quale
trascorrere la Veglia Santa senza aver gustato la minestra di pesce
o di pasta e broccoli, o di ceci, gli spaghetti "co’
l’alice", il
capitone, l’anguilla carpionata, il salmone, il baccalà fritto "cor
zibibbo", i contorni "di
broccoli acconniti", i
portogalli e i mandarini, sarebbe stato un segno di "miscredenza".
Un concetto che trova riferimento nell’agape dei primi cristiani in
occasione di una festa solenne, un vero rito, che rafforza e stringe
i vincoli di parentela e di amicizia. Del resto, nella Vigilia
rientra l’idea di purificazione, espressa anche dal "cenone", in cui
è volutamente esclusa la carne per far posto al capitone e ai pesci
in genere.
Il "cottìo"
del pesce, pittoresco e rumoroso, ai primi dell’Ottocento, si
svolgeva l’antivigilia di Natale al portico d’Ottavia, poi si
trasferì al mercato di San Teodoro a cui si accedeva attraverso una
via illuminata da girandole e lampadine elettriche. L’asta
cominciava alle due di notte e terminava solo quando il pesce era
stato venduto tutto. I prezzi nell’anno di grazia 1845 ce li
fornisce un sonetto del Belli:
Eh, ll’aliscette
e la frittura a nove, / Li merluzzi e le trije a diesci e mmezzo /
Le linguettole e rrommo a ddù’ carlini, / A un papetto la spigola e
r’dentale; / E su sto tajjo l’antri pesci fini.
Il
cenone della Vigilia di Natale, occasione in cui "se
magna, se magna, eppoi", tra
le altre cose, torrone, nociata, pignoccata, pangiallo e pampepato e
naturalmente vino "dalli
Castelli", ha dato
spunto a Giggi Zanazzo per descrivere un gustoso interno "de
Roma de ‘na vorta":
- No,
no, commare; su, su, su, ch’è troppo: / me volete fà fà li
caprioli?/ - Ched è, Dio mio, bevetevelo doppo, / ve sete fatta un
par de gotti soli. / - Dite la verità, sora Maria, / ‘sti spaghetti
nun so’ ‘na sciccheria?
- E voi
nu’ lo tirate er salamone?/ - No, tiro un antro pezzo de
‘st’anguilla. / Tirate giù, me fate compassione; / eh là tirate giù,
sora Cammilla. / Basta che poi co’ ‘sti tirate voi / nun ce tirate
er piatto in faccia a noi…
…
Fenitela ‘na vorta sto mortorio / e magnateve un pezzo de pangiallo.
/ - Sentite com’è bono ‘sto risorio?/ io so’ sei vorte che ce fo
cavallo. / - Compare, e voi? ma, dico, nu’ magnate?/ - Già avete
chiuso? Ih come v’allaccate!
"Dopo il banchetto familiare -
scriveva Ceccarius - era
di rito il gioco della tombola che si prestava a scherzi giocondi e
a beffe spiritose".
Ecco la
simpatica descrizione in un sonetto di Antonio Ilardi del 1883:
-‘Mbè
je la famo?... Tiro?... sete pronte?/ - Aspetta, famme mette armeno
a sede... / - Tira piano... - Che sete sorde e tonte?/ - Da sta
parte nemmanco ce se vede! / - Fatte imprestà l’occhiali dar Curato!
/ - Stateve zitto là... perdete er fiato.
Magara
tutto!... - E daje?... - Purcinella (73)/ La Purce (38), li
Pollastri (27), er sor Ninetto (1), / Moneta (26), Madre (52), Pena
(51), Carettella (22), / Bacio (2), la Caponera (14), er Diavoletto
(13), / Er Prete (28), er Fiume (81), avò, Papa Leone (58), / Zero
er più vecchio (90), er Gatto (3), un bel Lampione (10).
- E’
uscito er venticinque?... - Sta in padella! / - Statece attenta... -
Che ‘n se po’ arisponne?/ — Tavola apparecchiata (44), la Barella
(16), / Li Pidocchi (37), le Gamme delle Donne (77), / Er Frate
(43), li Palloni (88), la Lanterna (54)... / — Abbasta!!! si ‘umme
sbajo è la quaterna.
- Che
culo! - Cuminciamo a uprì er soffietto?/ - State zitte, nun fate
confusione. /
- Che
te fa tazza? magnete l’aietto. / - Si seguita accusi fo’ napulione.
/ - Tiro?... Er Natale (25)... - Mette, Crementina... / - Basta!
colla medesima: cinquina!
- Daje!
... - Scànnete – E’ escito er trentanove? / - Sta a mollo che
s’asciutta! - / gallinaccio (6), / Fratello (89) - Sta defora er
dicinnove? / - Vierrà! - Cortello (41), Foco (8), Campanaccio (9),/
- La Pulitica sporca (39), Imbriacone (19)/
-
Tommola! — Je s’è aperto er chiccherone.
-
Reggistra sì ciammanca quarche palla... / - Hai voja a baccajane, mò
è finito.../ - L’ha contate du’ vorte Rosa e Lalla / - Ma conta. -
Va a contalle a tu marito. / - Storcete puro er collo faccia
bella... / - E’ pagabile a vista… la cartella!
"E
non mancava – annotava
Ceccarius nelle sue ‘Natalizie Romane’ -
la recita del sermone fatta dai bambini innanzi al presepe
casalingo".
All’avvicinarsi della mezzanotte era consuetudine recarsi in chiesa
per la Messa di Natale, oltre cento anni fa, celebrata dal Papa
nella Basilica di S. Maria Maggiore. Alla funzione solenne assisteva
tutta Roma e, data quella stragrande affluenza di popolo mezzo
brillo per le abbondanti bevute della sera, non era raro il caso che
succedessero scandali d’ogni sorta, in mezzo a un tripudio sfrenato.
Ce lo descrive ancora Gizzi Zanazzo per bocca di una popolana:
-
Annate a sentì messa a mezzanotte?/ No, ce stiedi l’antr’anno e m’è
bastato; / ce perse tutto er sonno d’una notte, / e volete sapé che
m’è giovato?/ Che all’indomani stiedi tutto er giorno / Come se dice
a riggiramme intorno.
Poi la
chiesa era zeppa d’imbriaconi / che nun faceven’antro che porchetti.
/ Spinte, male parole, botte, urtoni, / pizzichi ar culo, ròtti,
moccoletti... / Ecco come s’accoje, caro Nino, / la vienuta che fa
Gesù Bambino!...
Per poi
concludere:
Si
Natale vieniva de dimenica / a casa tanto allora nun ce stavo. /
Dico, e me dimmanate, sora Menica, / si pe’ quale motivo me n’annavo?
/ nu’ lo sapete che d’anime sante / quella sera ne vann ‘in giro
tante?!…/ - Già, gireno quell’anime de quelli / che in morte nun so’
stati suffregati: / chi cià, presempio, madre, zii, fratelli / e
che, mettemo, se l’è già scordati, / quelle p’aricordajelo ‘sta
notte / lo vanno a trova a casa a mezzanotte.
E si a casa nun
troveno gnisuno / ma troveno la cena preparata / contatece, e pò
dillo quarchiduno, / che trovate la tavola spojata: / e invece
de magnà boni bocconi / ve pappate un ber paro de minchioni.
Per
motivi di sicurezza Pio IX fu costretto a sopprimere questa
antichissima usanza.
Al
ritorno dalla funzione religiosa, ricordava Ceccarius "
si rientrava in casa e, prima di concludere la laboriosa giornata,
una bollente tazza di brodo di cappone rinfrancava chi non preferiva
invece gustare nuovamente il vino, già abbondantemente libato".
di Cinzia
Dal Maso |
|