Il chinino fu introdotto a Roma dai Gesuiti nella prima metà del XVII sec. La “polvere del cardinale”, un toccasana per la malaria
La malaria, fin dall’antichità e per lunghi secoli, ha condizionato la vita di intere zone di Roma, estendendosi fino alla campagna circostante, come documentano Marco Terenzio Varrone nel “De Re Rustica” e Terenzio nel “De Rerum Natura”, che la ritenevano provocata dalle esalazioni dell’acqua stagnante delle paludi e acquitrini. La cura fu trovata per caso nella metà del XVII secolo. Sulla sua scoperta e sulla diffusione del rimedio, il chinino, si conosce una narrazione in parte leggendaria e in parte storica. La china era chiamata nel luogo d'origine, il Perù, "quimaquima”, ossia “corteccia delle cortecce”. La sua proprietà antimalarica fu scoperta per caso quando un indio, affetto da alti febbri ricorrenti e tormentato dalla sete, bevve l'acqua di una palude dove maceravano alcuni alberi di china e guarì. Il fatto suscitò l'interesse degli indios che collegarono l'efficacia dell'acqua al suo sapore amaro, dovuto dalle cortecce immerse. Il segreto medicamentoso della china arrivò agli spagnoli per merito di un soldato che alloggiava in una capanna assieme agli indios, il quale, ammalatosi di febbre, fu curato proprio con la china e guarì completamente. Gli spagnoli chiamarono la pianta "arbol de la calentura", albero della febbre. Allorché la contessa di Cinchon, moglie del vicerè del Perù, si ammalò gravemente per le febbri malariche, un soldato si recò a Lima per curarla con la china: il risultato fu che la contessa si ristabilì completamente. Questo aneddoto è riportato nel libro del medico Sebastiano Baldi “Anastasis corticis Peruoiae seu Chinae-Chinae defensio” del 1663: da questo momento la droga fu chiamata "polvere della contessa". Più tardi Carlo Linneo, accettando la storia del Baldi, battezzò la china coi nome di “Cinchona officinalis “. La leggenda, che vuole il chinino importato in Europa nel 1632 dalla stessa contessa, non trova però riscontro con la realtà: la contessa morì sulla via del ritorno e la corteccia della china, probabilmente introdotta in Europa da un ignoto prete Gesuita, divenne nota comunque con il nome di "Polvo de la Condesa". Questa narrazione colpì l'immaginazione degli artisti, tanto che sui muri dell'antica spezieria dell'ospedale di S. Spirito in Roma esiste una serie di affreschi del XVII secolo nei quali si ritrae con immagini pittoriche la commovente leggenda. I primi a introdurre la china in Spagna furono i Gesuiti, come ricorda Francesco Redi in una lettera del 1686 nel libro "Esperienze intorno a diverse cose naturali", e fu conosciuta come "polvere dei gesuiti". Tale prodotto, tra non poche diffidenze, cominciò a fare qualche timida apparizione anche nello Stato Pontificio. Decisivo fu l’incontro tra il P. Bartolomeo Tafur e il Fr. Pietro Paolo Puccierini, speziale del Collegio Romano. Il P. Tafur era venuto a Roma nell’autunno del 1655 dal Perù, per partecipare alla Congregazione Generale del gennaio dell’anno successivo, durante la quale ebbe frequenti incontri con Fr. Puccierini, distaccato alla Casa Generalizia del Gesù. Anzi è tradizione che lo stesso Tafur avesse portato con sé un certo quantitativo di china. Proprio in questa circostanza dovette esserne programmato il regolare rifornimento dal Perù alla Farmacia del Collegio Romano, per cui nel 1647 Fr. Puccierini iniziava la sua intensa attività, spedendo la “china-china” anche in Germania, Francia e Inghilterra. Intanto il card. Juan De Lugo, gesuita, insigne professore nel Collegio Romano, cominciò a portare il chinino ai malati che andava a visitare nell’Ospedale di Santo Spirito e, per vincere le diffidenze, dovette battagliare fino ad ottenerne la lavorazione nella spezieria dell’Ospedale, acquistando persino la corteccia a proprie spese e sorvegliandone la preparazione. Nella prima sala dell’Ala Flajani del Museo Storico Nazionale dell'Arte Sanitaria dell’Ospedale S. Spirito, al centro, possiamo vedere il tempietto che conteneva uno strumento con cui si triturava la corteccia di china senza farla disperdere. Risale all’ultimo quarto del XVIII secolo e fu eseguito su disegno di Giovanni Battista Cipriani da Siena. La polvere di china rivoluzionò il metodo di cura della malaria, febbre endemica a Roma e nella regione circostante dove ogni anno mieteva centinaia di vittime. Fr. Puccerini scrupolosamente accompagnava le dosi con una ricetta esplicativa a stampa, “Schedula Romana”, di cui si conoscono le edizioni del 1649 e del 1651: doveva anche rintuzzare le diffidenze con dichiarazioni scritte, di cui una la inviò al medico genovese Sebastiano Bado, che la inserì nel suo trattato “Anastasis Corticis Peruvianae” del 1663. La cassa di attestati che il religioso aveva depositato presso il card. Juan De Lugo, anch’egli gesuita, fa pensare ad uno stretto rapporto tra i due; il fatto poi, che la corteccia era fornita dai gesuiti del Perù può far preferire la dicitura “polvere dei Gesuiti”, a quella riportata da molti testi come “polvere del Cardinale”. Fr. Puccierini diresse la farmacia del Collegio Romano fino al 1661 e morì circa sessantenne il 1º agosto del 1662. Gli successe Fr. Alessandro Leoni quando l’attività sul china-china doveva essere ancora abbastanza viva. La corteccia di china veniva triturata e ridotta in modo da poterne estrarre il principio attivo, l’alcaloide della Cinchona Officinalis (chinino), ancora oggi un rimedio antimalarico per eccellenza. L’importanza della farmacia, anche in seguito, è attestata anche dal fatto che il 2 giugno 1717 il Re Giacomo terzo d’Inghilterra volle visitarla, come ricorda una lapide nel vano di una finestra. La convinzione che la china potesse curare ogni febbre, i lunghi tempi di trasporto dal Perù e soprattutto l’esaurimento delle selve di Losca (Ecuador) condussero ad una adulterazione del prodotto con altre cortecce, tanto che le facoltà di medicina europee la dichiararono inefficiente e dannosa. In Inghilterra e a Roma venne proibita la vendita; solo un piccolo quantitativo di buona qualità finiva nelle mani di pochi guaritori. La diffusione e l'apprezzamento per la china si devono alla malattia di Luigi XIV, curato dal medico inglese Talbon con questa polvere.
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