La nuova vita di un edificio creato dai greci e utilizzato anche dai romani

Nel teatro di Siracusa arrivano Fedra e Aiace


Ha preso il via, con due delle più belle tragedie dell’antichità, il XLVI ciclo di rappresentazioni classiche del teatro greco di Siracusa, promosso dall’INDA (Istituto Nazionale Dramma Antico). L’Aiace di Sofocle, per la regia di Daniele Salvo, con Maurizio Donadoni nel ruolo del protagonista e la Fedra (Ippolito portatore di corona) di Euripide, per la regia di Carmelo Rifici, con Elisabetta Pozzi nel ruolo di Fedra, saranno rappresentate a giorni alterni fino al prossimo 20 giugno, nella splendida cornice del maggior esempio di architettura teatrale dell’occidente greco, quasi interamente scavato nella balza rocciosa dell’altopiano dell’Epipoli. La struttura veniva utilizzata anche in età imperiale romana, per giochi circensi.

Filo conduttore dei due spettacoli è l’irrazionale che irrompe nell’umana esistenza, con il suo incontrollabile potere di devastazione.

Composta intorno al 450 a.C., l’Aiace ha come protagonista l’eroe omerico e la collera che lo porta fino a desiderare lo sterminio dei greci quando viene privato delle armi del defunto Achille, di cui si considera l’erede, a vantaggio dell’astuto Achille. Aiace è convinto di uccidere i suoi compagni, mentre invece infierisce su degli innocenti capi di bestiame, grazie all’intervento di Atena che lo confonde con immagini illusorie: la violenza efferata di Aiace mescolandosi alla "follia" instillata dalla dea culmina, al "risveglio", nell’unico esito  possibile agli occhi dell’eroe, il suicidio.

Ed è questo il destino riservato anche a Fedra, che nutre per il figliastro Ippolito una terribile, insana passione suscitatale da Afrodite, un eros in grado di trascinare in un baratro di dolore. Questo fato di "amore e morte", di nozze illecite, è come una malattia genetica per Fedra, che ricorda, parlando con la nutrice, la madre Pasifae, colpevole dell’amore bestiale per il toro - da cui generò il Minotauro - e la sorella Arianna, amata da Dioniso.

Il dramma, rappresentato nel 428 a. C., è da considerarsi a tutti gli effetti una Fedra, che ne è la protagonista indiscussa, nonostante il titolo riporti "Ippolito portatore di corona", con un epiteto distintivo rispetto a una precedente versione.

Venne concepito dal drammaturgo a seguito di un Ippolito velato che sembra non avesse riscosso l’approvazione degli spettatori ateniesi per l’immoralità di Fedra e delle sue proposte dirette e sfrenate al figliastro. Questa seconda versione, con cui Euripide vinse l’agone drammatico, testimonia dunque un dialogo tra il drammaturgo e la città e trasforma il vincolo in occasione divenendo un "capolavoro della reticenza" proprio nell’episodio in cui Fedra confessa i suoi sentimenti alla nutrice. Paradossalmente, Fedra ed Ippolito non si incontrano mai, se non attraverso questo terzo personaggio che assume una funzione drammatica e uno spessore straordinario.

In questi drammi la follia non si manifesta semplicemente come una malattia che si espande e porta alla morte; non avrebbe lo stesso potere di annientare i protagonisti  se non si unisse a un altro elemento che li attraversa, pur in modo diverso: la vergogna, il pudore, il rapporto con la comunità che li giudica. L’onore irrimediabilmente perduto viene compensato con il gesto estremo del suicidio, poiché la vergogna supera la colpa. Fedra e Aiace lasciano rispettivamente la scena circa a metà della tragedia, ma la loro influenza, la loro centralità nell’architettura del dramma rimane immutata, se non persino amplificata. Così, la reticente Fedra, che ancora nel dialogo con la nutrice sembra ferma nel proposito di non fare dilagare la passione che la invade, finirà con l’esprimere, attraverso la vendetta, lo stesso lato oscuro e potente che la accomuna ad un’altra donna, come lei di stirpe solare, Medea.

La seconda parte dell’Aiace, dal suo canto, prelude al grande tema che diventerà centrale in Antigone: il dibattito sulla sepoltura. Ma nell’Aiace il conflitto ha un esito diverso rispetto all’Antigone, grazie all’intervento di Ulisse che, con il suo invito alla misura nei sentimenti e al rispetto dei vivi come dei morti, sembra esprimere un monito a chi guida la città. C’è in lui una profonda forma di saggezza che è insieme dote politica e conquista interiore, da cui tuttavia emerge la "malinconica consapevolezza" di chi nell’avversario  sconfitto riesce a specchiarsi, vedendo in lui la fragilità della condizione umana.

di Alessandro Venditti

11 maggio 2010

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