Luigi
(Giggi) Zanazzo, nato nel Rione Campitelli il 31 gennaio 1860, sentì fin da
giovanissimo il fascino della storia e delle tradizioni della sua Roma. Si
diplomò in ragioneria e svolse un tranquillo lavoro di bibliotecario per il
ministero della Pubblica Istruzione, ma la sua vera passione era scrivere
poesie, prose e testi per il teatro in dialetto romanesco. A lui si deve la
preziosa e quasi capillare raccolta di usi e costumi popolari romani, pubblicata
in vari volumi, dalla "Vox populi" del 1880 e dai "Proverbi romaneschi" del 1886
al "Saggio d’indovinelli" del 1904 e ai "Canti popolari romani con un saggio dei
canti del Lazio", edito nel 1910, un anno prima della morte, riuniti in seguito
nei quattro volumi delle "Tradizioni popolari romane". Il suo scopo era
riprendere quel "monumento alla plebe di Roma" composto da Giuseppe Gioachino
Belli, di cui era fervido ammiratore, e continuarlo.
Tra gli
argomenti trattati da Zanazzo non poteva certo mancare il Carnevale, uno dei
periodi dell’anno più amati dai popolani, ma anche dai viaggiatori stranieri. I
suoi momenti salienti erano stati immortalati da celebri pittori, come "le corse
de li bbarberi ch’ereno una bbellezza a vvedé’ quanno li lassaveno a ppiazza der
Popolo e quanno li ripijaveno a la Ripresa".
Zanazzo,
nella sua paziente ricerca, andava anche a scavare nel passato, riportando le
crudeli pratiche messe in atto nei confronti degli ebrei, a partire da "certe
commediacce chiamate le Ggiudìate, indove li ggiudìi ereno messi in
ridicolo e sbeffeggiati". Ma non finiva qui: "er primo ggiorno de Carnovale,
ddice, ch’er Capo Rabbino de Ghetto annava a riverì er Senatore romano e a
inchinajese d’avanti co’ la capoccia insino a ttera. Allora er Senatore, bbôna
grazzia sua, je metteva un piede su la capoccia, oppuramente lo mannava via cor
un carcio indove se sentiva mejo, in nome de Baruccabbà. Cor tempo poi
levorno ’st’usanza bbuffa, e in cammio, obbrigorno li ggiudìi a ppagà’ ttutti li
palii che vvinceveno li bbarberi a le corse che sse faceveno p’er Corso
in de li otto ggiorni de Carnevale".
Si
arrivava poi alla sera del martedì grasso, con la famosa "festa dei moccoletti"
che animava la via del Corso. Ognuno teneva in mano una candela o un lumino
acceso e cercava in qualunq
ue
modo di spegnere quello di un altro, in una sorta di momentaneo livellamento
delle gerarchie sociali. "L’urtimo ggiorno de Carnovale, ammalappena sonava l’Avemmaria
(anticamente sparava puro er cannone), tutti quelli che sse trovaveno p’er
Corso, sii a ppiede, sii in carozza, sii a ccavallo, sii a le finestre,
accennéveno li moccoletti. Poi co’ le svèntole, co’ li mazzettacci de fiori, o
co’ le cappellate, ognuno cercava de smorzà’ er moccolo a ll’antro, dicènno: —
Er móccolo e ssenza er móccolo! Avevi voja, pe’ ssarvallo, de ficcallo in
cima a una canna o a un bastone, o a fficcatte in un portone! Era inutile.
Tutti te
daveno addosso; e o ccor un soffietto, o ccor una svèntola o cco’ ’na manata o
’na mazzettata te lo smorzaveno in ogni modo, urlanno: —
Er móccolo e ssenza er móccolo; abbasso er
móccolo!"
Trai
canti popolari c’è anche una "Tarantèlla de Carnovale". Occorre precisare che
Zanazzo non amava le tarantelle e le definiva "rozze e noiose nenie", senza
comprendere a fondo l’importanza di queste composizioni, per lo più estemporanee
e spontanee. Eccone le prime strofe: "S’avvicina Carnovale: / chi ffa da conte,
chi dda speziale. / Io me vojo vestì da conte / Ma li panni li tiengo ar Monte".
Sempre
legato alla festa più trasgressiva dell’anno, è un episodio della vita del noto
burattinaio Ghetanaccio, soprannome di Gaetano Santangelo (1782 – 1832),
chiamato di frequente nelle case nobili per rappresentare le sue commediole:
"una vorta, de Carnovale, l’invitò ar su’ palazzo a ddà’ una rippresentazzione
l’imbasciatore de Francia". Il diplomatico chiese al burattinaio di non
lasciarsi andare alle solite, irriverenti pernacchie. "Ssi llei me lèva puro
le pernacchie, allora m’aruvina", fu la risposta. "Me permetti armeno de
fanne una sortanto". L’ambasciatore accettò. La sera della rappresentazione,
il salone era gremito di cardinali, prelati, principi e principesse. In scena
Pulcinella vestito da re, a cui un servitore in livrea annunciava a gran voce: "sua
eccellenza l’ambasciatore di Francia!". Immediatamente Gaetanaccio "j’ammolla
una sorba tale, che ffece intronà’ tutti li vetri dar salone"!.