Le
rovine di Gabii che si vedono ancora lungo la via Prenestina, a circa 18
chilometri da Roma, raccontano la storia di un’antichissima città sorta lungo
l’orlo di un cratere vulcanico riempito da un vasto specchio d’acqua: era il
Lago di Castiglione, prosciugato da una bonifica degli anni 1889-90.
Poco fuori la cinta muraria si
innalza solitario nel verde dell’erba il Tempio di Giunone, il più antico
santuario del Lazio pervenutoci. Se ne conserva la cella fino alla travatura del
tetto a doppio spiovente. La scalinata frontale si innalzava su una piattaforma
di pietra, con all’estremità un anello a cui venivano legate le vittime dei
sacrifici. Nella parte posteriore una buca, rifatta almeno tre volte, ospitava
forse l’albero sacro del santuario.
Gabii era stata fondata, secondo
la leggenda, dai latini di Albalonga, la cui città era posta ugualmente sul
bordo di un cratere, nel luogo dell’odierna Castelgandolfo. Stando a Dionigi di
Alicarnasso, Romolo e Remo in persona sarebbero venuti a scuola a Gabii, per
apprendere lettere, musica ed uso delle armi greche. La città, quindi, in epoca
arcaica non godeva fama solo per la sua cultura, ma anche per la predominanza
sui centri vicini. Le fonti riferiscono di un trattato di alleanza stipulato tra
Roma e Gabii sulla base di un’assoluta parità al tempo di Tarquinio il Superbo,
il "Foedus gabinum", che sarebbe stato scritto in caratteri arcaici su uno scudo
di pelle bovina, conservato almeno fino all’epoca di Augusto sul Quirinale, nel
tempio di Semo Sanco, divinità preposta al rispetto dei patti e delle alleanze.
Per contrastare l’avanzata di
Roma, le più potenti tra le città latine — tra cui Gabii, Tuscolo, Arida,
Lanuvio, Lavinio, Cora, Tivoli, Pomezia, Ardea - si allearono nella "Lega
Latina", a cui aderì anche Tarquinio il Superbo, dopo la sua cacciata da Roma,
nella speranza di poter riconquistare il trono.
Le due parti vennero ben presto a
un aperto conflitto. Luogo dell’epica battaglia furono le sponde del lago
Regillo, nei pressi di Tuscolo. Qui i Romani, con un poderoso esercito di fanti
e cavalieri comandato da Aulo Postumio e la Lega, capeggiata dallo stesso
Tarquinio, nel 499 o nel 496 a.C., si fronteggiarono senza risparmio di colpi.
Dice Livio che, quando i Romani notarono la presenza di Tarquinio, si misero
immediatamente all’attacco, battendosi con più ferocia del solito. Anche i
comandanti si gettarono nella mischia, senza accontentarsi di impartire gli
ordini da lontano. I Latini si trovarono in svantaggio, allora il comandante
della loro cavalleria, Ottavio Mamilio, mandò in prima linea la coorte dei
profughi romani, condotta dal figlio del Superbo, a cui Postumio contrappose la
propria coorte. Il comandante romano quindi ordinò ai cavalieri di scendere dal
destriero per combattere a fianco dei fanti, ormai stanchi, cosa che rincuorò
non poco i soldati. A questo punto, secondo Livio, Postumio avrebbe promesso di
dedicare un tempio a Castore, uno dei Dioscuri, i gemelli nati dall’unione di
Giove con la regina di sparta Leda. Il voto fu sciolto dal figlio di Postumio il
27 gennaio del 484 a.C. con l’erezione del tempio del Foro.
Lo storico Dionigi di Alicarnasso
fornisce maggiori particolari sul combattimento, non sempre attendibili. Il
numero dei partecipanti alla battaglia, ad esempio, sembra esagerato: 23.700
fanti e mille cavalieri per Roma, contro i 40 mila fanti e i tremila cavalieri
della Lega.
Dionigi riporta poi una leggenda,
introducendola con un cauto "dicono che...": a Postumio, nel momento cruciale
della lotta, sarebbero apparsi due giovani, "più belli e più alti di tutti gli
altri uomini", in sella a due splendidi cavalli bianchi, che, preso il comando
della cavalleria romana, scacciarono i Latini con 1 loro lance, prima di
scomparire misteriosamente come erano arrivati. Gli stessi giovani furono visti
poco dopo lo scontro nel Foro Romano Mentre abbeveravano i cavalli alla Fonte di
Giuturna, presso il Tempio di Vesta, diedero a popolo l’annuncio della vittoria.
Fu allora chiara la loro natura soprannaturale: erano Castore e Polluce.
Per convincere anche gli scettici, i Dioscuri toccarono la barba di una persona
che si era avvicinata, facendola diventare rossa, cosicché l’uomo ebbe in
seguito il soprannome di Enobarbo, ossia "barba di rame".
Più volte ricostruito e restaurato
negli anni, il Tempio dei Castori fu uno dei più importanti dell’antica Roma.
Restano a testimoniare il suo passato splendore tre splendide colonne corinzie
che si stagliano contro il cielo della Capitale. Ancora in epoca imperiale il 15
luglio si festeggiava l’anniversario della vittoria del lago Regiilo, con i
"Ludi Castorum", imponente cerimonia durante la quale cinquemila cavalieri
ordinati in tribù e centurie come in guerra sfilavano vestiti con la toga
bordata in rosso e ornati da corone d’ulivo.
I Romani, dunque, credevano
incondizionatamente alla storia dell’intervento divino al lago Regillo? Sembra
proprio di no. Nel I secolo d.C. Sesto Giulio Frontino, autore di un trattato
sugli acquedotti, definiva l’apparizione "un evidente caso di suggestione
collettiva", forse indotta dallo stesso Aulo Postumio allo scopo di incoraggiare
i suoi soldati.
Appena tre anni dopo la battaglia,
Roma suggellò la pace con la Lega Latina e vi entrò a far parte mediante un
altro trattato, il "Foedus cassianum", che prende il nome dal console Spurio
Cassio. Il suo testo fu scritto su una colonna bronzea collocata nel Foro presso
la Curia, dove rimase, secondo Cicerone, fino alla metà del I sec. a. C. Le due
potenze si preparavano, con questa alleanza, a fronteggiare il pericolo
rappresentato da Equi e Volsci, che dagli Appennini muovevano minacciosi verso
Lazio e Campania.
In seguito Gabii si sarebbe
mantenuta sempre fedele a Roma, di cui costituì un avamposto per le conquiste
nella valle del Sacco e dell’Aniene. Il suo nome sarebbe stato perpetuato dalle
sue cave di una pietra inattaccabile dal fuoco, detta dagli antichi "lapis
gabinus", ossia pietra gabina e assai ricercata.