Lungo
l’attuale via Petroselli, quasi di fronte al palazzo dell’Anagrafe, è una
piccola zona archeologica, non molto frequentata, presso la chiesa di Sant’Omobono,
all’estremità settentrionale dell’antico Foro Boario, che ha portato
determinanti risultati per lo studio dei rapporti tra Roma e gli Etruschi. In un
luogo in cui già nel VII secolo a. C. doveva essere un’area sacra all’aperto,
nel 1937 sono venuti alla luce i resti del tempio più antico finora scoperto a
Roma, edificato agli inizi del VI secolo a. C. e completamente rinnovato nella
decorazione circa cinquant’anni più tardi, cui si affiancò poi un altro tempio.
Si trattava del santuario dedicato
alla Mater Matuta, che per la sua posizione presso l’antico guado del Tevere e
nel punto d’incontro di antichissime direttrici viarie, dovette anche svolgere
una funzione commerciale, sotto la tutela di Ercole, ritenuta la divinità
protettrice del bestiame e della transumanza. La stessa Mater Matuta era legata
all’emporio fluviale. Secondo il mito infatti, Leucothea, dea di origine tebana,
era approdata grazie all’aiuto delle Naiadi con il figlio Portunus sulle sponde
del Tevere e aveva assunto il nome di Mater Matuta.
Il primo tempio doveva avere una
pianta grosso modo quadrata, con la cella in mattoni crudi affiancata da un
pronao "in antis" (chiuso da due muri), al quale si accedeva dal lato
frontale, mediante una gradinata. Era decorato da terrecotte ornamentali
d’ispirazione corinzia: nello spazio frontonale dovevano essere collocate delle
lastre di rivestimento con due silhouette a forma di felino, di cui sono stati
rinvenuti alcuni frammenti.
Assai più elaborata fu la seconda
fase del tempio, riferibile al regno di Tarquinio il Superbo, con una pianta
rettangolare a cella unica e un notevole apparato decorativo fittile, con fregi
di tipo ionico a rivestimento del timpano recanti processioni di carri,
confrontabili con altri da Veio. Sul crinale del tetto era collocato un gruppo
acroteriale in terracotta di buon livello artistico, oggi esposto alla Centrale
Montemartini, con due figure affiancate grandi circa due terzi del naturale, in
cui la maggior parte degli studiosi identifica Eracle ed Atena, ai cui lati, al
sommo del timpano, prendevano origine quattro enormi volute fittili.
L’archeologo
Filippo Coarelli, nel suo volume sul Foro Boario, propone una suggestiva lettura
del gruppo. Per quanto riguarda la divinità femminile, sottolinea che la
mancanza della parte anteriore della statua non permette un’identificazione
sicura con Atena, mentre l’elmo rimanda a modelli orientali. L’Eracle è di tipo
cipriota: come sottolinea lo studioso, "ciò si ricava senza dubbio dal corpetto
aderente, aperto sul davanti e fissato con una particolare fibbia, e da altri
dettagli". La scelta di un modello cipriota per la figura dell’Eracle, però, non
può essere limitata a uno solo dei due personaggi, che fin dall’origine dovevano
far parte di un modello iconografico unitario. "Con quale divinità femminile
armata – si chiede Coarelli – va collegato necessariamente un Eracle cipriota?
La risposta sembra obbligata: non può trattarsi che di Astarte. Quanto a Eracle,
dovrebbe trattarsi di un Eracle Melqart, divinità sincretistica che
nell’ambiente misto greco-fenicio di Cipro ha forse conosciuto la sua prima
definizione". Sappiamo che Astarte era onorata anche a Pyrgi, dove era in
qualche modo assimilata a Uni: lo provano le tre lamine d’oro (fine VI – inizi V
sec.a.C.) rinvenute nel 1964 in un’area recintata tra due templi. In una delle
lamine, in fenicio, si parla infatti della dedica di un'area sacra alla dea
Astarte fatta dal re di Caere, Thefarie Velianas. In un’altra, scritta in
etrusco, la dea viene chiamata "Unialastrus", risultato dell'unione dei nomi di
Uni e Astarte, considerate probabilmente come la stessa divinità.
Nella rappresentazione il potere
monarchico e la stessa città troverebbero, quindi, sostegno in Astarte,
"divinità femminile armata, protettrice della rocca e dei confini, regina degli
eserciti e creatrice di sovrani".
Nell’Area Sacra di Sant’Omobono,
vicino al podio del tempio, una stipe votiva ha restituito in grande quantità
materiali databili alla prima metà del VI secolo a. C., tra cui numerose
ceramiche d’importazione greca, vasi etrusco-corinzi, buccheri ed un leoncino
d’avorio con sul retro l’iscrizione etrusca "araz silqetenas spurianas",
che ricorda il nome di un aristocratico tirreno.
All’epoca della cacciata dei
Tarquini (fine del VI secolo a.C.), il santuario subì una violenta distruzione.
Fu ricostruito all’inizio del V sec. a.C. con diverso orientamento. Due templi
gemelli – l’occidentale dedicato a Fortuna e l’orientale a Mater Matuta - furono
posti su una grande base alta cinque metri e di quasi 50 metri di lato, per
difenderli dalle continue inondazione del Tevere. Il riempimento effettuato per
realizzare tale sopraelevazione ha restituito frammenti di ceramiche dell’età
del Bronzo (XIV-XIII secolo a.C.), forse riferibili a un villaggio sul
Campidoglio.
Un’ulteriore fase costruttiva è
dovuta a Furio Camillo, che dopo la presa di Veio (396 a.C.) rifece i templi e
sistemò l’area antistante, dove furono poste due are. Tre donari, due
rettangolari e uno circolare, vennero forse utilizzati per sostenere le
statuette di bronzo portate a Roma da Marco Fulvio Flacco nel 264 a.C. a seguito
della conquista di Volsinii.
Dopo un restauro dei 212 a. C., si
arriva all’ultima fase costruttiva, opera dell’imperatore Adriano (117-135 d.
C.), a cui si riferiscono le tracce di pavimentazione musiva della cella di uno
dei templi trovate sotto la chiesa di Sant’Omobono. Nell’edificio pagano,
infatti, si era sistemata nel VI secolo una piccola chiesa paleocristiana,
restaurata nel XII-XIII secolo con una pavimentazione cosmatesca. Ricostruita
nel 1482, fu dedicata a San Salvatore in Porticu, finché nel XVIII secolo
assunse la denominazione di SS. Omobono e Antonio.
Dell’argomento si parlerà a
"Questa è Roma!", la trasmissione ideata e condotta da Maria Pia Partisani, in
onda ogni domenica mattina, dalle 9.30 alle 10.30, su Nuova Spazio Radio (88.150
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