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Santo Stefano Rotondo

Le pitture che sconvolsero perfino il marchese De Sade

 

 

di Cinzia Dal Maso

“Nessuno potrebbe sognare un tale panorama di orrore e macelleria,  nemmeno se avesse mangiato un intero maiale crudo per cena. Uomini con la barba grigia bolliti, fritti, arrostiti, schiacciati, marchiati, divorati da bestie feroci, sbranati dai cani, seppelliti vivi, smembrati dai cavalli, tagliati a pezzetti con l’accetta:  donne con le mammelle strappate da pinze di ferro, con le lingue tagliate, con gli occhi  cavati, le mascelle rotte, i corpi slogati dalla ruota, o bruciati sul rogo, o fatti a pezzi e gettati nel fuoco: questi sono solo alcuni dei soggetti più innocenti”. Così scriveva Charles Dickens nel X capitolo del suo “Pictures from Italy”, riferendosi agli affreschi dipinti nel 1583 da Nicolò Circignani, detto il Pomarancio, sulle pareti del secondo colonnato di Santo Stefano Rotondo al Celio. Le pitture erano state realizzate con aderenza al clima della Controriforma, per esortare i fedeli a un’esistenza mistica e severa, attraverso la cruda rappresentazione del sacrificio dei martiri, con tanto di didascalie in latino e in italiano. Già papa Pio V, esaminando attentamente gli affreschi nel 1589, come assicurano le cronache dell’epoca, “dalla commozione versava calde lagrime, asciugandosi gli occhi continuamente”. Sui quadri, le azioni si svolgono con ritmo serrato, in cui condanna ed esecuzione sono evidenziate da una vivace mimica dei corpi, delle braccia, delle mani. Ne risulta un’antologia di efferate torture tale da colpire anche gli animi più incalliti. Prima di Dickens, infatti, era stato nientemeno che il Marchese de Sade a rimanere sconvolto dalle pitture. L’autore di “Le centoventi giornate di Sodoma”, durante il suo viaggio a Roma del 1775, rimase profondamente impressionato dal martirio di S.Agata, cui un carnefice strappa un seno.

 

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