Lo scalone dell’imponente palazzo salito da tanti romani
Il Sacro Monte di Pietà antico asilo dall’usura
Fu istituito nel 1539 dal frate G. Mattei da Calvi per venire incontro all’indigenza dei poveri, dei caduti in disgrazia e contro la diffusa attività degli strozzini
di Antonio Venditti

 

Nel 1462 nacquero nelle piccole e medie città del centro Italia i Monti di Pietà, per rispondere alle esigenze di credito dei poveri e strappare il monopolio dei prestiti ai banchi dei pegni, che praticavano tassi di interesse molto alti. I Monti di Pietà applicavano interessi fissi al 5%, chiedendo quali garanzie per ricevere un prestito la residenza in città o nelle vicinanze.
A Roma, il palazzo del Monte di Pietà, che dà il nome alla piazza su cui prospetta, riflette la politica creditizia e sociale del Cinquecento.
Fu istituito nel 1539 dal padre Giovanni Mattei da Calvi, Commissario della Curia Romana dei Frati Minori, per alleviare l’indigenza dei poveri e combattere l’usura. Amministrato inizialmente dallo stesso fondatore, vi fu successivamente preposto un porporato assistito da una Congregazione di 40 deputati scelti dalle migliori famiglie romane.
La prima sede fu in Banchi, di fronte a S. Lucia del Gonfalone; di qui si spostò in un edificio di Clemente Buccelleni in via dei Coronari, acquistato nel 1585 per 7000 scudi da Sisto V. Dal 1603 è nella sede attuale.
Il palazzo del Monte, costruito dalla famiglia Santacroce, dominava l’omonima piazza, detta anche di S. Martinello. Fu venduto nel 1588 al card. Prospero Santacroce che lo fece sistemare dal Mascherino (Ottaviano Nonni). L’erede del cardinale lo cedette nel 1591 ai fratelli Settimio e Fantino Petrignani di Amelia, che nel 1603 lo alienarono a favore del Sacro Monte di Pietà.
Iniziarono i lavori di ampliamento sotto la direzione del Maderno - che ebbe come collaboratore anche il giovane Borromini - il quale prolungò la costruzione sulla destra della vecchia facciata del Mascherino e costruì in angolo con via Arco del Monte una Cappella, aperta al pubblico nel 1618.
Sotto Urbano VIII, ampliata la piazza con la demolizione di alcune case, proseguì l’ampliamento della fabbrica verso piazza dell’Olmo, attuale S. Salvatore in Campo; nella direzione dei lavori, alla morte del Maderno (1630) era succeduto il Breccioli a cui subentrò il Peparelli che per proseguire i lavori demolì nel 1638 la chiesa di S. Salvatore in Campo.
Una nuova cappella si iniziò a costruire nel 1639 con l’opera di Francesco Peparelli, (morto nel 1641), continuò con Giovanni Antonio De Rossi (collaboratore dei Bernini) e successivamente con Carlo Francesco Bizzaccheri (allievo di Carlo Fontana), a cui si devono il vestibolo e la cupola. Il piccolo edificio, a pianta ovale, è un vero gioiello realizzato secondo un preciso programma organico, che prevedeva l’esaltazione dell’intento benefico del Sacro Monte. L'esecuzione delle decorazioni si protrasse fino al 1725 e la consacrazione ebbe luogo nel 1730.
Successivamente si continuò l’ampliamento della fabbrica verso la Trinità dei Pellegrini; la facciata da quel lato, eretta tra il 1735 e il 1740, è opera di Nicola Salvi.
Nella facciata principale, la parte centrale, con sei finestre architravate a mensole e la porta spostata a sinistra, è quella più antica. Corrisponde al palazzo Santacroce Petrignani, ed è opera del Mascherino; successivamente è stata sopraelevata e modificata.
In basso, una fontana addossata alla facciata, per gli emblemi scolpiti, è un chiaro omaggio dell’esecutore al committente, Paolo V (Borghese). L’acqua sgorga da due draghi posti al lato della vasca e, al centro, da un indefinibile mascherone, più simile ad una bestia che ad un uomo. Al di sopra, una mensola su cui campeggia un’aquila.
In linea con il primo piano, un’edicola, più propriamente l’insegna dell’Istituzione adorna la facciata: un bellissimo altorilievo in marmo del Cristo deposto dalla croce entro il sepolcro, emblema del Monte di Pietà. La figura, modellata con eleganza contro il fondo policromo, sporge da una nicchia profonda, limitata da grosse cornici modanate, sotto un timpano ricurvo in cui una testina alata di bimbo sorregge pesanti festoni. La grande targa di marmo, disegnata dal Maderno, ricorda il trasloco del Monte in questa nuova sede. Due grandi stemmi di Paolo III (fondatore del Monte) e di Clemente VIII (che acquistò della nuova sede) e due scudi minori coi blasoni di Roma e di Pietro Aldobrandini (cardinale protettore dal 1602 al 1621), chiusi da nastri mossi, inquadrano tra volute e modiglioni un insieme di squisito gusto barocco.
All’ultimo piano, spostato sulla sinistra, è l’orologio - con il sovrastante campanile a vela adorno sul timpano del “Cristo nel Sepolcro” - a cui è collegata la storia secondo la quale il costruttore, non soddisfatto del compenso ricevuto, alterò i congegni e incise sull'orologio i seguenti versi: "Per non esser state a nostre patte / Orologio del Monte sempre matte". L'orologio fu collocato alla fine del XVII secolo e la scritta, naturalmente, fu cancellata dalle autorità. Ancor oggi, però, l'orologio sembra rispettare le direttive del suo costruttore: non segna mai l'ora giusta e cammina quando e come gli pare.
Le altre facciate del palazzo sono prive di interesse, tranne quella disegnata dal Salvi e prospiciente sulla piazza della Trinità dei Pellegrini, poi sopraelevata.
Lungo il perimetro dell’edificio sono varie targhe marmoree che ricordano la proibizione di “fare il mondezzaro” e le relative pene pecuniarie e corporali.
L'attuale impostazione del grande cortile risale ai lavori di modifica progettati dall'architetto Ignazio del Frate nel 1872, durante la gestione straordinaria del regio commissario Alessandro d’Emarese. L’elegante fontana posta al centro, del Maderno, ricorda, nei rilievi raffiguranti l'aquila e il drago dello stemma Borghese, decorazione della vasca, il pontificato di Paolo V.
A destra è l’ingresso della Cappella annessa al Monte, la cui officiatura era affidata alla Confraternità della Pietà, istituita da Sisto V.
Il Monte di Pietà venne indicato scherzosamente dai romani come "Monte d'Empietà", perché consideravano elevato l’interesse richiesto a chi avesse la necessità di farvi ricorso.

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