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Fu dedicato, in vita, all’Imperatore da M. Aurelius Victor

Nell’Arco di Gallieno trionfa l’adulazione

Il monumento corrisponde all’antica Porta Esquilina, che si apriva nelle Mura Serviane, da cui partivano le vie Labicana e Prenestina

di Antonio Venditti

 

Compresso da due edifici, a fianco della chiesa di S. Vito si erge l’Arco di Gallieno, all’Esquilino, il colle "gelido", come lo chiamava Giovenale, fino al XVII secolo ancora infestato da belve e lupi.

Il monumento si innalza in un’area che in età imperiale rappresentava il centro della vita pubblica, con il Forum Esquilinum, dentro e fuori le mura Serviane, il Macellum Liviae - il mercato di carni macellate costruito sotto Augusto e restaurato tra il 264 ed il 378 - ed il Lacus Orphei, la grandiosa mostra d’acqua con la statua di Orfeo.

L’Arco di Gallieno corrisponde all’antica Porta Esquilina, che in età repubblicana si apriva nelle Mura Serviane, dalla quale iniziavano le vie Prenestina e Labicana. In seguito, cominciava qui la V regione augustea. A quest’altezza terminava l’agger, perché le antiche condizioni altimetriche del terreno rendevano sufficiente come difesa delle semplici mura: queste, sempre con la stessa direzione, incontravano l’odierna Via Merulana - presso Piazza Leopardi - e proseguivano verso il Colle Oppio.

I resti delle Mura Serviane sono visibili su via Carlo Alberto, a ridosso del palazzo che affianca la chiesa di S. Vito.

Alla fine dell’Ottocento, in vicinanza delle Mura Serviane, sotto gli edifici che si affacciano su via Carlo Alberto, è stata rinvenuta la più antica necropoli di Roma: sono state scoperte le due tombe dipinte di età medio-repubblicana, attualmente nelle collezioni comunali della Centrale Montemartini.

La Porta Esquilina venne ricostruita in epoca augustea, come doveva ricordare una iscrizione sull’attico, dove sono visibili tracce di cancellatura.

L’Arco fu poi dedicato all'imperatore Gallieno e a sua moglie Salonina dal sacerdote del dio sole e prefetto di Roma, M. Aurelius Victor, nel 262 d.C., come testimonia nella cornice sotto l’attico in entrambe le facciate, una dedica adulatrice per celebrare il "clementissimo principi cuius invicta virtus sola pietate superata est et Saloninae sanctissimae Aug.; M. Aurelius Victor v(ir) e(gregius) dicatissimus numini maiestatique eorum", che alcuni storici non esitano a definire "vilissimo", dedito ai giochi e ai bagordi, crudele al punto da far trucidare in un sol giorno tre o quattromila soldati.

Di proporzioni tendenti al quadrato, in travertino, dalle linee molto semplici, con sesto largo e basso, fiancheggiato da pilastri angolari corinzi, l’Arco presenta il piano odierno inferiore di quasi un metro rispetto a quello antico. Sulla sinistra restano i segni di un ingresso minore, appoggiato a quello centrale: poiché la stessa disposizione doveva ripetersi sull'altro lato, ne consegue che la porta presentava tre fornici, di cui i due laterali più bassi e di minore spessore: dimostrazione che fu eretto non come un arco - trionfale od onorario - piuttosto come una porta, nel sito in cui il clivus Suburanus attraversava le mura, diretto ad Spem Veterem, l’area di Porta Maggiore.

L’architettura appare anteriore al tempo di Gallieno per le proporzioni severe e sobrie, per l’uso del travertino, anziché del marmo, per la geometria della cornice e dei pilastri, tendenti al movimento orizzontale, tipico dell’età repubblicana. In particolare, l’iscrizione è incisa sulle due facce dell’epistilio in caratteri piccoli, mentre le lastre del fregio risultano scalpellate di qualche centimetro e il piano lasciato grezzo per ricevere un rivestimento di metallo, fissato completamente da grappe.

All’epoca di Gallieno, l’Arco doveva presentarsi rinnovato: alla sommità erano le statue in bronzo dell’Imperatore e della moglie, un ulteriore ornamento era stato posto nel fregio e nell’attico, in modo da farlo apparire quasi un monumento nuovo, innalzato sulla via che l’Imperatore percorreva con il suo corteo di "magistri officiorum omnium" per recarsi dal Palatino agli splendidi "horti Liciniani" dell’Esquilino.

Il fornice centrale è alto m. 7,16, largo m. 7,16 e profondo m. 3,38. I due laterali, alti m. 5,30, larghi 3,45, profondi m 1,28, furono demoliti nel 1447 per la costruzione della chiesa di S. Vito. L'attico è alto m. 2 e aveva un fregio liscio con l'originaria iscrizione augustea, scalpellata nel III secolo per far posto a quella di M. Aurelius Victor.
Nel Medio Evo, all’Arco vennero appese con una catena due chiavi della Porta Salcicchia di Viterbo, consegnate a Roma agli inizi del XIII sec. in segno di sottomissione, insieme ad una campana. Un'incisione seicentesca di Alò Giovannoli mostra le chiavi che pendono dalla volta dell'Arco, addossato al primitivo ingresso della chiesa di S. Vito, ma non compaiono più nelle stampe del Piranesi (1748), del Vasi (1756) e in quella del Rossini (1821).

In età medioevale l'Arco veniva chiamato anche "arcus pictus" per gli affreschi quasi certamente di soggetto religioso attinente a S. Vito: il recente restauro ne ha confermato l'esistenza.

Fino all’Arco si prolungava la zona franca esente da gabelle, stabilita da Nicolò V (1447-55), per i venditori di vettovaglie ai pellegrini diretti alla basilica di S. Maria Maggiore.

La chiesa di S. Vito, addossata all’arco, risale alla fine del XV sec. Della struttura originaria restano la facciata - con portale in marmo ed occhio centrale - e le bifore sulla fiancata destra. L'edificio fu restaurato nel 1620 a cura del Principe Federico Colonna, di nuovo nel 1834 da Pietro Camporese il Giovane. Il 1° novembre 1824 la chiesa fu eretta a parrocchia della Basilica di Santa Maria Maggiore da Leone XII
Alla fine dell'Ottocento, l'apertura della chiesa fu fatta su Via Carlo Alberto, ma verso gli anni '70 tornò su via San Vito.

L’interno, una semplice aula rettangolare, presenta un bell’affresco di Antoniazzo Romano (1483), raffigurante la Madonna e il Bimbo tra i Santi Modesto, Crescenzia, Sebastiano, Margherita e Vito, un quadro dell'Immacolata di Pietro Gagliardi, un gruppo di putti di Camillo Rusconi del 1685.

All'interno è murata la "pietra scellerata" che una leggenda vuole sia servita per la tortura e morte di molti cristiani. Nel Medioevo si riteneva che la raschiatura della pietra salvasse dal morso dei cani arrabbiati e per questo motivo la pietra appare raschiata profondamente su tutta la superficie. Sembra che ne abbia tratto beneficio nel 1620 anche Federico Colonna duca di Paliano, di cui una targa, sormontata da uno stemma, ricorda i restauri effettuati nella chiesa.

In realtà, si tratta di un cippo funerario antico con un’epigrafe in memoria di Elio Terzio Causidico.

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