Compresso da due edifici, a fianco
della chiesa di S. Vito si erge l’Arco di Gallieno, all’Esquilino, il colle
"gelido", come lo chiamava Giovenale, fino al XVII secolo ancora infestato da
belve e lupi.
Il monumento si innalza in un’area
che in età imperiale rappresentava il centro della vita pubblica, con il
Forum Esquilinum, dentro e fuori le mura Serviane, il Macellum Liviae
- il mercato di carni macellate costruito sotto Augusto e restaurato tra il 264
ed il 378 - ed il Lacus Orphei, la grandiosa mostra d’acqua con la statua
di Orfeo.
L’Arco di Gallieno corrisponde
all’antica Porta Esquilina, che in età repubblicana si apriva nelle Mura
Serviane, dalla quale iniziavano le vie Prenestina e Labicana. In seguito,
cominciava qui la V regione augustea. A quest’altezza terminava l’agger,
perché le antiche condizioni altimetriche del terreno rendevano sufficiente come
difesa delle semplici mura: queste, sempre con la stessa direzione, incontravano
l’odierna Via Merulana - presso Piazza Leopardi - e proseguivano verso il Colle
Oppio.
I resti delle Mura Serviane sono
visibili su via Carlo Alberto, a ridosso del palazzo che affianca la chiesa di
S. Vito.
Alla fine dell’Ottocento, in
vicinanza delle Mura Serviane, sotto gli edifici che si affacciano su via Carlo
Alberto, è stata rinvenuta la più antica necropoli di Roma: sono state scoperte
le due tombe dipinte di età medio-repubblicana, attualmente nelle collezioni
comunali della Centrale Montemartini.
La Porta Esquilina venne
ricostruita in epoca augustea, come doveva ricordare una iscrizione sull’attico,
dove sono visibili tracce di cancellatura.
L’Arco fu poi dedicato
all'imperatore Gallieno e a sua moglie Salonina dal sacerdote del dio sole e
prefetto di Roma, M. Aurelius Victor, nel 262 d.C., come testimonia nella
cornice sotto l’attico in entrambe le facciate, una dedica adulatrice per
celebrare il "clementissimo principi cuius invicta virtus sola pietate
superata est et Saloninae sanctissimae Aug.; M. Aurelius Victor v(ir) e(gregius)
dicatissimus numini maiestatique eorum", che alcuni storici non esitano a
definire "vilissimo", dedito ai giochi e ai bagordi, crudele al punto da far
trucidare in un sol giorno tre o quattromila soldati.
Di proporzioni tendenti al
quadrato, in travertino, dalle linee molto semplici, con sesto largo e basso,
fiancheggiato da pilastri angolari corinzi, l’Arco presenta il piano odierno
inferiore di quasi un metro rispetto a quello antico. Sulla sinistra restano i
segni di un ingresso minore, appoggiato a quello centrale: poiché la stessa
disposizione doveva ripetersi sull'altro lato, ne consegue che la porta
presentava tre fornici, di cui i due laterali più bassi e di minore spessore:
dimostrazione che fu eretto non come un arco - trionfale od onorario - piuttosto
come una porta, nel sito in cui il clivus Suburanus attraversava le mura,
diretto ad Spem Veterem, l’area di Porta Maggiore.
L’architettura appare anteriore al
tempo di Gallieno per le proporzioni severe e sobrie, per l’uso del travertino,
anziché del marmo, per la geometria della cornice e dei pilastri, tendenti al
movimento orizzontale, tipico dell’età repubblicana. In particolare,
l’iscrizione è incisa sulle due facce dell’epistilio in caratteri piccoli,
mentre le lastre del fregio risultano scalpellate di qualche centimetro e il
piano lasciato grezzo per ricevere un rivestimento di metallo, fissato
completamente da grappe.
All’epoca di Gallieno, l’Arco
doveva presentarsi rinnovato: alla sommità erano le statue in bronzo
dell’Imperatore e della moglie, un ulteriore ornamento era stato posto nel
fregio e nell’attico, in modo da farlo apparire quasi un monumento nuovo,
innalzato sulla via che l’Imperatore percorreva con il suo corteo di "magistri
officiorum omnium" per recarsi dal Palatino agli splendidi "horti
Liciniani" dell’Esquilino.
Il fornice centrale è alto m.
7,16, largo m. 7,16 e profondo m. 3,38. I due laterali, alti m. 5,30, larghi
3,45, profondi m 1,28, furono demoliti nel 1447 per la costruzione della chiesa
di S. Vito. L'attico è alto m. 2 e aveva un fregio liscio con l'originaria
iscrizione augustea, scalpellata nel III secolo per far posto a quella di M.
Aurelius Victor.
Nel Medio Evo, all’Arco vennero appese con una catena due chiavi della Porta
Salcicchia di Viterbo, consegnate a Roma agli inizi del XIII sec. in segno di
sottomissione, insieme ad una campana. Un'incisione seicentesca di Alò
Giovannoli mostra le chiavi che pendono dalla volta dell'Arco, addossato al
primitivo ingresso della chiesa di S. Vito, ma non compaiono più nelle stampe
del Piranesi (1748), del Vasi (1756) e in quella del Rossini (1821).
In età medioevale l'Arco veniva
chiamato anche "arcus pictus" per gli affreschi quasi certamente di
soggetto religioso attinente a S. Vito: il recente restauro ne ha confermato
l'esistenza.
Fino all’Arco si prolungava la
zona franca esente da gabelle, stabilita da Nicolò V (1447-55), per i venditori
di vettovaglie ai pellegrini diretti alla basilica di S. Maria Maggiore.
La chiesa di S. Vito, addossata
all’arco, risale alla fine del XV sec. Della struttura originaria restano la
facciata - con portale in marmo ed occhio centrale - e le bifore sulla fiancata
destra. L'edificio fu restaurato nel 1620 a cura del Principe Federico Colonna,
di nuovo nel 1834 da Pietro Camporese il Giovane. Il 1° novembre 1824 la chiesa
fu eretta a parrocchia della Basilica di Santa Maria Maggiore da Leone XII
Alla fine dell'Ottocento, l'apertura della chiesa fu fatta su Via Carlo Alberto,
ma verso gli anni '70 tornò su via San Vito.
L’interno, una semplice aula
rettangolare, presenta un bell’affresco di Antoniazzo Romano (1483),
raffigurante la Madonna e il Bimbo tra i Santi Modesto, Crescenzia, Sebastiano,
Margherita e Vito, un quadro dell'Immacolata di Pietro Gagliardi, un gruppo di
putti di Camillo Rusconi del 1685.
All'interno è murata la "pietra
scellerata" che una leggenda vuole sia servita per la tortura e morte di
molti cristiani. Nel Medioevo si riteneva che la raschiatura della pietra
salvasse dal morso dei cani arrabbiati e per questo motivo la pietra appare
raschiata profondamente su tutta la superficie. Sembra che ne abbia tratto
beneficio nel 1620 anche Federico Colonna duca di Paliano, di cui una targa,
sormontata da uno stemma, ricorda i restauri effettuati nella chiesa.
In realtà, si tratta di un cippo
funerario antico con un’epigrafe in memoria di Elio Terzio Causidico.