L’omicidio con il veleno: un’arte antica come Roma
Il veleno, ovvero l’arma per uccidere preferita dalle donne. Niente forza fisica, né antiestetici spargimenti di sangue, un po’ di astuzia e il risultato è assicurato. Chissà se la regina del giallo Agatha Christie, che in tanti suoi romanzi lo scelse per le sue spietate assassine, conosceva il “sapiente” utilizzo del veleno con cui si contraddistinsero le ricche matrone romane. Non occorre arrivare alle soglie del Rinascimento per trovare delle avvelenatrici doc. Anche le nostre progenitrici impararono presto l’arte di uccidere con fulminanti pozioni. Forse perché i mariti molesti e le noie della vita coniugale, da che mondo è mondo, sono sempre stati gli stessi: fatto sta che le fonti antiche ci tramandano molti casi di morti sospette. Il primo processo per avvelenamento venne celebrato a Roma nel 331 a.C., durante il consolato di Claudio Valerio e Valerio Potino. Dopo il decesso di alcune illustri personalità, una schiava aveva confessato all’edile curule Quinto Fabio Massimo che le morti non erano state naturali, ma la conseguenza di una muliebris fraus, “una frode femminile”. In poche parole, un gruppo di dolci mogliettine aveva somministrato ai rispettivi consorti una bevanda – è proprio il caso di dirlo - buona “da morire”. Le autorità competenti fecero irruzione nelle case, dove furono trovate pozioni sospette, così venti donne vennero convocate in direttissima nel Foro per il processo. Cornelia e Servia, di nobili origini, si difesero dicendo che le bevande sequestrate erano venena bona, ossia “medicinali”. La schiava, sicura del fatto suo, sfidò le affermazioni delle donne, invitandole a bere il contenuto delle ampolle. Le matrone accettarono, ma di lì a qualche minuto caddero a terra prive di vita. In seguito all’accaduto, venne creata un’apposita commissione incaricata di indagare e giudicare su casi simili. Circa centosettanta donne furono mandate a morte. Almeno nel caso di Cornelia e Servia siamo portati ad ipotizzare la buona fede delle malcapitate. E’ possibile infatti che le donne, al tempo abili nella confezione di oli e bevande medicamentose a base di erbe naturali, avessero senza intenzione fabbricato una bibita velenosa. Non si spiegherebbe altrimenti come mai, pur sapendo che le bevande erano mortali, avessero deciso comunque di berle pubblicamente. Al di là delle supposizioni, sappiamo con certezza che gli uomini romani temevano di essere avvelenati dalle consorti infedeli, se – come diceva Catone - “a Roma non c’è adultera che non sia anche un’avvelenatrice”. Molte furono le donne, in epoca repubblicana, accusate di veneficium: nel 153 a.C. toccò a Publilia e Licinia, colpevoli a quanto pare di aver fatto fuori i rispettivi mariti, consoli in carica. Le due presunte assassine (viene da pensare piuttosto ad un omicidio politico) furono, come prescriveva l’antico codice, strangolate dai parenti più prossimi. |
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