I Baccanali, feste condannate dal Senato Il console Postumio promosse le indagini e trovò le testimonianze
Un’iscrizione bronzea, conservata oggi a Vienna, restituisce diretta testimonianza di una serie di fatti incresciosi che si verificarono a Roma e nell’Italia antica verso il II sec. a.C. Lo straordinario documento giuridico, chiamato dagli antichi senatus consultum, era stato emesso nel 186 a.C. per frenare il pericoloso imperversare degli sfrenati riti bacchici, i cosiddetti “Bacchanalia”. In tali circostanze, gli iniziati al culto si lasciavano andare ad ogni nefandezza notturna, fomentati da un atroce motto: “il male non esiste”. Gli uomini, come in preda ad un’inspiegabile follia, davano oracoli, mentre le matrone, in abiti succinti, correvano al Tevere per spengere nelle sue acque fiaccole accese: poiché impregnati di zolfo e calce, i lumi tornavano a galla ancora fiammanti. Durante i Bacchanalia si praticava il sesso di gruppo, avvenivano stupri, sodomizzazioni e chi non voleva subire violenza o si rifiutava di compiere qualche altro delitto era condannato a morte. Il culto, di origine orientale, era entrato a Roma dopo le guerre cartaginesi, diffondendosi in breve tempo per tutta la penisola. E’ lo storico latino Tito Livio a tramandare il racconto dettagliato della vicenda che, a quanto pare, determinò l’immediato intervento delle autorità, decise a porre fine ad un scempio in cui erano coinvolte circa 7000 persone, tra cui persino esponenti della nobiltà. Un giovane chiamato Ebuzio era innamorato di una schiava liberata, Ipsala, nota per aver esercitato il meretricio. Il patrigno del ragazzo, uno scialacquatore, voleva eliminarlo o assoggettarlo al suo volere con qualunque mezzo. La madre degenere, pronta ad assecondare il marito, decise per la via più breve: introdurre il figlio al culto di Bacco. Con fare materno disse al ragazzo che, quando era stato ammalato, aveva formulato per la sua pronta guarigione un voto al dio del vino. Una volta cessato il male, la donna aveva promesso che, per ringraziamento, lo avrebbe iniziato al suo culto. Ebuzio doveva astenersi per dieci giorni da rapporti sessuali e, dopo una cena ed un bagno purificatorio, sarebbe stato condotto al sacrario di Bacco. Il giovane informò l’amata di tale decisione, ma Ipsala lo ammonì a non farlo, poiché conosceva quel luogo come “l’officina di ogni depravazione”. La giovane gli spiegò quel che sapeva. Era stata lì da schiava, dovendo accompagnare la sua padrona. Da quando era stata liberata non vi era più entrata, ma conosceva bene la sorte degli sventurati che vi si recavano: appena introdotto al suo interno, il nuovo adepto era consegnato come una vittima nelle mani dei sacerdoti. Questi lo accompagnavano in un locale che risuonava di ululati, canti e del fracasso di timpani e cembali, l’unico modo per nascondere le urla disperate ed imploranti di chi veniva violentato. Ebuzio, sconvolto, su consiglio di una zia decise di denunciare tutto al console Postumio che, verificata l’esattezza dei fatti e delle testimonianze ricevute, parlò aspramente dinanzi al popolo romano, impegnandosi affinché mai più si celebrassero Bacchanalia. Il senatus consultum del 186 a. C., perfettamente conservato, “reca ancora la sua firma”. |
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