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Le notti "bianche" degli antichi Romani

Tra il rumore dei carri e gli schiamazzi di ubriaconi e giovinastri

di Annalisa Venditti
 

 

Al calar della sera, mancando l’illuminazione notturna delle strade, l’antica Roma piombava nell’oscurità. Le tenebre potevano essere squarciate dal bagliore improvviso della torcia di qualche ritardatario che, di buona lena, si affrettava a raggiungere la propria abitazione.

Al chiarore della di luna si svolgevano i funerali dei cittadini più poveri, a cui era precluso il fasto delle esequie tradizionali: i corpi venivano umilmente composti su una barella dagli schiavi pubblici e, attraverso un breve corteo, gettati nella fossa comune. Il poeta Marziale ci ha tramandato un divertente imprevisto accaduto ad un viaggiatore gallo, avventuratosi in una "lugubre" notte romana. Era quasi l’alba e l’imprudente turista stava tornando all’albergo quando il caso volle che inciampasse e per il gran colpo ricevuto svenisse. Quattro schiavi pubblici che trasportavano sulla lettiga un morto, vedendolo, si impietosirono e decisero di "abbandonare" gli obblighi del loro ufficio per aiutarlo: lasciarono il cadavere a terra, caricarono il gallo sulla lettiga e così lo condussero all’albergo.

Di notte non era prudente inoltrarsi nei viottoli della città: la capitale dell’impero si trasformava nel "regno" di ladruncoli, rapinatori, giovanotti in cerca di guai e prostitute. Mancavano sia la luce che il silenzio: gli abitanti, condannati all’insonnia, si lamentavano del fracasso provocato dai carri pesanti che avevano il permesso di transitare nelle ore notturne, per evitare l’affollamento del giorno. La vita economica della città non si acquietava mai. Roma, anche avvolta dalle tenebre, era la città del rumore. Al frastuono dei carri si aggiungevano il chiasso degli ubriaconi e gli schiamazzi dei giovanotti che uscivano dai bordelli o si divertivano con qualche ragazza di strada. Neppure le cosiddette forze dell’ordine erano impermeabili alle "tentazioni" della notte. Pare che il magistrato Aulo Ostilio Mancino, responsabile della sicurezza delle strade, abbandonasse i suoi doveri per una clamorosa "piazzata" dinanzi all’uscio della prostituta Manilia. Invece di proseguire la ronda notturna, pretendeva, in virtù del suo potere giurisdizionale, di partecipare alla "festa" organizzata in casa dalla meretrice. La donna, indispettita da tanta insistenza, zittì il fastidioso magistrato in malo modo: mentre l’uomo continuava a battere al suo uscio, facendo un gran baccano, gli gettò dal primo piano un sasso in testa. Il magistrato sporse denuncia contro la temeraria Manilia, ma non ebbe la soddisfazione sperata. I tribuni della plebe, interpellati dalla meretrice, impedirono ad Aulo Ostilio Mancino di intentare un processo ai suoi danni, poiché fu giudicato gravissimo che un pubblico ufficiale, peraltro in servizio, si fosse comportato in modo così disdicevole.

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