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I cavalli e le cavallerizze furono la passione del conte Adriano Bennicelli

Una "tacchia" per stemma, il romanesco come lingua

Non sopportava i vetturini e i pizzardoni, era applaudito

per l’abilità di auriga e conosciuto per la sua colorita verve

Il conte Adriano Bennicelli non poteva accontentarsi della lussuosa abitazione di via Giuseppe Pisanelli al Flaminio per dare sfogo alla sua irruenta personalità di aristocratico generoso, socievole, eccentrico, con un linguaggio mordace, tipicamente romanesco.
Per esprimersi al meglio aveva bisogno di un palcoscenico all’aperto e di un folto pubblico davanti al quale esibirsi, in Tilbury o in charette, tirati da due, tre, quattro e persino sei cavalli.
Il titolo gli era derivato dal padre Filippo, che lo aveva acquisito nel 1860 da Pio IX. Il genitore era un commerciante di legnami, proprietario di un opificio a cui Papa Mastai, nel corso di una visita, si rivolse dicendo: "Ecco il conte in mezzo ai suoi vassalli": "Io, Santità – gli rispose Filippo - so’ conte de burla, ma questi so’ vassalli pe’ davero!".
Se la battuta pronta e di spirito fu familiare in casa Bennicelli, a colorire la figura di Adriano contribuì anche il nomignolo, dovuto alla professione del padre, di Conte "Tacchia" (in dialetto romanesco significa pezzo di legno), affibbiatogli dai popolani, con i quali s’intratteneva spesso a discutere animatamente.
Il Conte Adriano, quando per strada si sentiva chiamare "Tacchia", s’infuriava e replicava con i termini più espressivi del vocabolario romanesco. La circolazione stradale si bloccava al punto da richiedere l’intervento di un "pizzardone". Alle minacce di pene corporali contro i beffeggiatori, il Conte faceva seguire una squillante risata e qualche frase arguta.
Gli venivano tributati applausi nel vedere girare la sua carrozza attorno all’obelisco di piazza del Popolo o infilarsi tra la doppia fila di vetture che andavano e venivano da Villa Borghese per poi tirare verso il Corso, schivando carrozze e pedoni con i quali spesso scambiava numerose pernacchie.
I vetturini erano oggetto di epiteti di ogni genere, perché ritenuti di scarsa abilità professionale. Una volta il Conte finì in pretura per averne schiaffeggiato uno. Fu condannato a cinquanta lire di ammenda, ma visto il sorriso soddisfatto dell’avversario si affrettò a depositare sul tavolo del magistrato un biglietto da cento lire e sulla faccia del vetturino un altro schiaffo per pareggiare il conto.
Tra il Conte e i pizzardoni non correva buon sangue, soprattutto per motivi di circolazione. E non solo. Si racconta che una volta fu scoperto da una guardia mentre faceva la "pipì". Pagò senza replicare. Si rivolse al pizzardone per chiedergli se ripetendo quel fatto avrebbe dovuto pagare di nuovo. Alla risposta negativa, tutto raggiante invitò alcuni conoscenti che passavano a "far pipì", tanto era tutto pagato.
"Me vojo fa’ l’arioplano – confidò un giorno pieno d’entusiasmo ad un amico -; me lo dichi come faranno poi li pizzardoni a venimme appresso? E vojo vedè puro come farà er Sinnico a appiccicà per aria le scritte co’ la "Direzione vietata!".
Tuttavia, per dimostrare che non avere rancore verso i pizzardoni, il 26 agosto, giorno del suo onomastico, invitava a pranzo l’intera ufficialità del corpo.
La sua grande giornata era quella del Derby alle Capannelle, quando dall’alto del suo stage color limone guidava quattro leardi pomellati, attraverso il groviglio dei veicoli sulla via Appia. Attraversava Porta S. Giovanni per arrivare fino al Corso, tra le ovazioni della folla che in fondo gli voleva bene.
Una volta, però, imboccato il Corso, entrò con il suo tiro a quattro dentro il caffè Aragno, dove provocò un parapiglia generale e numerosi danni.
Il suo debole era sempre quello di esibirsi in pubblico per attirare su di sé l’attenzione della folla, come il giorno di San Pietro del 1908, durante una riunione di corse al trotto, quando si misurò con il dott. Taruffi. Entrò in pista sfoggiando una sciarpa con i colori capitolini e agitando la frusta in segno di saluto verso gli spettatori che lo applaudirono al grido di "Evviva Tacchia! Coraggio Tacchia! Forza Tacchia!". Benché sconfitto, il Conte effettuò con tutti gli onori due giri di pista tra una gazzarra sedata solo grazie all’intervento della forza pubblica.
Al soprannome di "Conte Tacchia" finì per rassegnarsi, dal momento che era diventato una vera celebrità a Roma.
Accanto alla passione per i cavalli, il Conte, sempre galante con le donne, nutriva quella per le cavallerizze, tanto da renderlo assiduo frequentatore dei circhi equestri. La sua vita fu accompagnata da una sfilza di vicende giudiziarie con udienze alle quali accorreva la folla per ridere delle saporite autodifese dell’imputato.
L’avvento dell’automobile lo portò ad acquistare il "macinino", una 20 cavalli traballante e sbuffante che diventò presto il terrore dei romani. Come nel pomeriggio del 12 ottobre del 1904, quando, vedendosi precluso il cammino da una vettura di piazza, per non urtare il cavallo finì sul marciapiede, abbattendo un lampione. Se la prese con il Comune che "aveva collocato i lampioni sul suo cammino".
Il desiderio di non perdere la popolarità lo spinse a sostenere i lavoratori durante gli scioperi e i comizi, come quello dei muratori in Trastevere, in cui declamò una sua versione dell’apologo di Menenio Agrippa e offerse 1000 lire per una bevuta generale. Nel 1910 intraprese la carriera politica con la candidatura a deputato liberale. Molti manifesti apparvero a Roma per annunciare che il 2 luglio, presso un’osteria campestre dei "Cessati Spiriti", avrebbe esposto il suo programma elettorale. Fu accolto da pochi fedeli al grido di "evviva il nostro deputato". Raccolse soltanto 83 voti su 2694 votanti. Commentò così la sconfitta: "Ho pagato tanti litri e mi hanno restituito un fiasco solo!".
Fu preso poi dalla passione per l’arte oratoria, tanto da tentare, alla fine di dicembre del 1908, tra una confusione generale, una conferenza nella Sala Pichetti.
Scoppiata la "Grande Guerra", con spirito patriottico il conte Bennicelli si recò al Macao per consegnare personalmente i suoi amati cavalli.
Trascorse gli ultimi anni della vita infermo, finché il 21 dicembre 1925 cessò di vivere, rimpianto dai romani, privati di una simpatica e poliedrica figura aristocratica, tutta franchezza e generosità, in continua scommessa con se stesso, forse in gara con la vita.

di Antonio Venditti

novembre 2002

 

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