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E’ stato trasferito nel Parco del Gianicolo

Il monumento a Ciceruacchio

"La memoria di lui vivrà eterna quanto il tempo. Roma, l'Italia, lo venereranno quale Martire; e siamo certi che quando sul Campidoglio sventolerà il tricolore vessillo e saranno infugati dal Vaticano i tristi corvi, Roma, decretando onore di epigrafi e di monumenti ai suoi Martiri, inciderà i nomi loro sulla pietra, e in cima a que' nomi sarà quello di Angelo Brunetti detto Ciceruacchio". Così Felice Venosta, nel 1863, concludeva il suo libro dedicato all’eroe trasteverino, fucilato insieme con i suoi figli a Ca’ Tiepolo, la notte tra il 10 e l’11 agosto 1849, durante la lunga marcia di Garibaldi in direzione di Venezia, dopo la caduta della Repubblica Romana.

Bisognò aspettare il centenario della nascita di Garibaldi, il 1892, perché un comitato popolare, di cui era presidente Salvatore Barzilai e di cui facevano parte Luigi Cesana, direttore de "Il Messaggero", e lo scultore Ferrari, inoltrasse la richiesta di un monumento all’eroe. Fu aperta una sottoscrizione e distribuito un foglio nel quale era scritto che il monumento avrebbe dovuto "glorificare l’anima popolare, espressa dall’eroismo di Ciceruacchio, il quale, dopo aver diffuso le idee liberali in mezzo al popolo romano, cadde vittima della doppiezza politica di Pio IX".

L’esecuzione dell’opera in bronzo fu affidata allo scultore siciliano Ettore Ximenes, che ne aveva già presentato il progetto con notevole successo all’esposizione di Torino del 1880. La solenne inaugurazione del monumento, collocato sul lungotevere Arnaldo da Brescia, presso il ponte Margherita, avvenne il pomeriggio del 3 novembre 1907. Appena cadde il telo che copriva il gruppo scultoreo, la folla rimase con il fiato sospeso a contemplare la figura imponente e fiera di Angelo Brunetti, che, guardando in faccia il nemico, si scopriva il petto, indicando di mirare al cuore. Ai suoi piedi il figlio Lorenzo, in ginocchio e bendato, con la bocca spalancata in un grido. Dal monumento fu escluso l’altro figlio, Luigi, con un atto giudicato da Aldo Lombardi "antistorico ed inumano". Ma Luigi Brunetti era un personaggio scomodo: su di lui gravava il sospetto di essere stato l’esecutore materiale dell’assassinio di Pellegrino Rossi, ministro dell’Interno del governo pontificio, accoltellato il 15 novembre del 1848 nel palazzo della Cancelleria.

Nel 1959, in occasione dell’apertura del sottovia del lungotevere Arnaldo da Brescia, il monumento fu spostato di non molto, sul lungotevere in Augusta, dove però i rami di due platani ne ostacolavano la visibilità e il passaggio continuo delle macchine ne compromettevano la conservazione. Ora sembra aver trovato una sede degna e definitiva. La scorsa settimana, in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stato trasferito nel parco del Gianicolo, luogo simbolo del Risorgimento romano, poco prima del cancello che dà su Porta San Pancrazio.

di Cinzia Dal Maso

 

 

Fu inaugurata per il centenario della Repubblica Romana

La statua di Mazzini
attesa per molti anni

Il Fascismo ostacolò decisamente la realizzazione del monumento perché opera del Gran Maestro della Massoneria italiana, Ettore Ferrari

Nel 1880 il Governo italiano, presieduto da Francesco Crispi, decise di erigere un monumento a Giuseppe Mazzini. Fu redatto un disegno di legge, che venne dibattuto tra animate discussioni. Crispi voleva che Mazzini fosse celebrato come sostenitore dell’Unità nazionale, mentre i deputati dell’estrema sinistra chiedevano di mettere in luce anche il credo repubblicano del fondatore della Giovane Italia.

Nel luglio dello stesso anno venne nominata una specifica Commissione, ma si dovette attendere il 1902 per incaricare dell’esecuzione del monumento Ettore Ferrari (1845-1929), già autore della statua di Giordano Bruno in piazza Campo de’ Fiori, che presentò subito un progetto, approvato nel mese di maggio. Nel 1905 erano pronti anche i bozzetti, ispirati alla forza del pensiero mazziniano, trasposta in una rappresentazione continua, di tono eroico, con riferimenti ad opere emblematiche del romanticismo. Il progetto, più complesso rispetto ad altri monumenti dedicati alla celebrazione di uomini illustri del Risorgimento, è stato in linea di massima rispettato. Il monumento risulta composto da una statua in bronzo di Mazzini, seduto in atteggiamento pensoso, posta al di sopra di un alto basamento ornato da un fregio allegorico ad alto e altissimo rilievo, con le figurazioni dell'idea Mazziniana: l'aspirazione alla libertà che si concretizza nella Giovane Italia, il sacrificio per la redenzione degli oppressi dalla tirannide, la lotta contro il dispotismo, il turbine trionfale della rivoluzione e la ricomposizione delle spoglie dei martiri. Nella parte posteriore, sono effigiati all’interno di medaglioni alcuni promotori dell’indipendenza italiana: Goffredo Mameli, Carlo Pisacane, Aurelio Saffi, Maurizio Quadrio, Alberto Mario, Rosolino Pilo e Adriano Lemmi. Non mancano chiari riferimenti alla Massoneria, di cui Ferrari fu Gran Maestro dal 1904 al 1917. Tra le figure scolpite si nota quella di un uomo dall’ampio grembiule di cuoio, cui una donna, personificazione della Virtù, porge un martello e uno scalpello. Il basamento in marmo bianco, rettangolare nella parte anteriore e preceduto da un’ara, diventa semicircolare sul retro per recingere un sacro boschetto. Non venne realizzato il tempietto dorico che avrebbe dovuto contenere la statua di Mazzini, perché escluso dal progetto nel 1911 dallo stesso Ferrari.

L’artista fu impegnato quasi trent’anni nella realizzazione dell’opera, durante i quali non riuscì a saperne con certezza nemmeno la collocazione definitiva. Probabilmente il maggiore ostacolo alla realizzazione del monumento, che divenne insormontabile durante il periodo fascista, fu proprio la nota appartenenza del Ferrari alla Massoneria.

L’artista moriva nel 1929, lasciando le parti scultoree, praticamente ultimate, nel giardino della propria abitazione; anche la statua in bronzo era stata fusa e si trovava a Napoli, presso la fonderia Laganà.

Solo dopo la seconda Guerra Mondiale, nel 1948, venne presa la ferma decisione di sistemare il monumento proprio nel luogo suggerito dal Ferrari, alle pendici dell’Aventino, sul piazzale Romolo e Remo, oggi dedicato a Ugo La Malfa, al centro di una vasta esedra, interrotta da via di Valle Murcia e via delle Terme Deciane e delimitata da un lungo sedile in travertino.

Per mantenere la fedeltà al progetto originario, fu chiesta la collaborazione del figlio dell’artista, Gian Giacomo Ferrari, che a sua volta si fece aiutare dallo scultore Ettore Guastalla nella ricomposizione delle parti scultoree.

Il monumento venne finalmente inaugurato il 2 giugno 1949, in occasione del centenario della Repubblica Romana.

Tra il settembre del 1999 e il marzo del 2000, il monumento a Giuseppe Mazzini è stato sottoposto a un radicale intervento di restauro per sanare i danni causati dalla prolungata esposizione agli agenti atmosferici e da atti vandalici. Per quanto riguarda questi ultimi, alcune delle figure a tutto tondo risultavano prive di dita, mani e in alcuni casi, persino della testa. Inoltre, alcune scritte a vernice e pennarello imbrattavano la statua di bronzo, il marmo e il travertino del basamento e dei sedili.

di Antonio Venditti

SPECIALE RISORGIMENTO - SPECCHIO ROMANO

 

 

E’ OPERA DI MARIO RUTELLI, FAMOSO PER LA FONTANA DELLE NAIADI

IL MONUMENTO EQUESTRE
DI ANITA GARIBALDI

Nel 1932 l’Italia fascista commemorò con una lunga serie di eventi il cinquantenario della morte di Giuseppe Garibaldi. Al Palazzo delle Esposizioni fu allestita una prestigiosa mostra garibaldina, mentre furono pubblicati gli scritti dell’Eroe dei Due Mondi.

Le manifestazioni più importanti si svolsero però a giugno. Il primo del mese ci fu il trasferimento a Roma dei resti di Ana Maria De Jesus Ribeiro, meglio conosciuta come Anita, inseparabile compagna di Garibaldi. Il giorno seguente i resti furono tumulati in un loculo ai piedi del monumento eretto in sua memoria sul Gianicolo. Il 4 giugno, alla presenza di un foltissimo pubblico, delle autorità, di Vittorio Emanuele III, della regina Elena in veste di madrina e di Benito Mussolini, il monumento fu inaugurato, come testimonia un filmato dell’Istituto Luce.

Anita era nata in Brasile, nei pressi di Laguna, Stato di Santa Caterina. Non se ne conosce la data di nascita precisa, anche se la sua città le ha attribuito quella del 30 agosto 1821. Era già sposata con Manuel Duarte de Aguiar quando incontrò Giuseppe Garibaldi nell'agosto del 1839 a Laguna. Lui se ne innamorò perdutamente e fu ben presto ricambiato: già nell'ottobre Anita era imbarcata su una nave con l’eroe e da allora per dieci anni condivise l’inquieta e pericolosa vita di Garibaldi.

"Non meno fervida di me – la descriveva l'eroe - per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa". Nel 1842, dal momento che Manuel Duarte era morto, i due si poterono sposare a Montevideo.

Nel 1847 Anita si imbarcò per l’Italia con i figli Menotti, Teresita e Ricciotti. Il marito la seguì nell'ottobre 1848. Quando Garibaldi si recò alla difesa di Roma, non volle portare con sé la donna per non farle correre troppi pericoli, nonostante le sue proteste. Anita lo raggiunse solo a giugno, pochi giorni prima che la Repubblica cadesse. Quando il 2 luglio 1849 Garibaldi abbandonò Roma, Anita era sofferente e al quarto mese di gravidanza. La drammatica ritirata, i pericoli e le privazioni d'ogni genere compromisero le condizioni della giovane donna, che fu portata, allo stremo delle forze, nella fattoria Guiccioli, nei pressi di Ravenna, dove spirò il 4 agosto del 1849. Garibaldi, braccato dagli Austriaci, dovette lasciarla lì e venne tumulata presso la chiesa delle Mandriole. Solo al ritorno dell’esilio, nel 1859, l’Eroe tornerà a prendere i suoi resti mortali per seppellirla vicino alla madre, a Nizza. Finalmente nel 1932 Anita avrebbe potuto riposare nel suo monumento sul Gianicolo, opera di Mario Rutelli, sormontata dal dinamico bronzo (oggi puntellato per un leggero cedimento) in cui la donna è raffigurata a cavallo, con i lunghi capelli sciolti, mentre stringe al seno uno dei suoi figli, il piccolo Menotti, e punta in alto una pistola. Il cavallo rampante e l’espressione guerriera assimilano Anita a una moderna Amazzone. Lo scultore raffigurò uno degli episodi della vita di Anita, avvenuto nel 1840 presso San Simon (Rio Grande). La donna aveva appena partorito in una casa di amici e Garibaldi l’aveva dovuta lasciare per cercare delle vesti per lei e per il neonato. Nel frattempo, le truppe imperiali si erano spinte fino a San Simon spargendo ovunque il terrore. Anita, vestita della sola camicia, aveva preso tra le braccia il figlio e, armata di pistola, aveva affrontato una furiosa cavalcata notturna tra boschi e burroni, mettendosi in salvo. Garibaldi, dopo averla cercata inutilmente nella casa, la ritrovò nella foresta mente allattava tranquillamente il piccolo. Sulla base del monumento, alcuni bassorilievi in bronzo rievocano altri episodi della breve ma movimentata vita di Anita.

Lo scultore Mario Rutelli era nato a Palermo il 4 aprile del 1859 e morì a Roma il 4 novembre del 1841. Fece i suoi studi artistici all’Accademia di Palermo e li completò nella capitale presso Giulio Monteverde. La sua opera più celebre e discussa è la Fontana delle Naiadi in piazza della Repubblica a Roma. Famosa anche la quadriga di bronzo sul teatro Politeama di Palermo. Altre opere romane di Mario Rutelli sono una delle quadrighe sul Vittoriano e il monumento a Nicola Spedalieri in piazza Sforza Cesarini, vicino alla Chiesa Nuova.

Dell’argomento si parlerà a Nuova Spazio Radio (88.100 MHz), a "Questa è Roma", il programma ideato e condotto da Maria Pia Partisani, in studio con Livia Ventimiglia il martedì dalle 14 alle 15 e in replica il sabato dalle 10 alle 11.

di Cinzia Dal Maso

SPECIALE RISORGIMENTO - SPECCHIO ROMANO

 

 

FU COSTRUITO GRAZIE AGLI ITALIANI EMIGRATI IN ARGENTINA

IL FARO TRICOLORE DEL GIANICOLO


Nelle ricorrenze nazionali, potenti fasci di luce tricolori illuminano le notti romane: vengono dal Faro del Gianicolo, elevato nel 1911, in occasione del primo cinquantenario della creazione del Regno d’Italia, grazie ai fondi raccolti dagli Italiani emigrati in Argentina. Il luogo in cui è stato collocato, oltre a essere molto elevato, ha anche un significato simbolico per essere stato teatro degli scontri per la difesa della Repubblica romana del 1849.

Il Faro è opera dell’architetto piacentino Manfredo Manfredi (1859 – 1927), che realizzò anche la tomba di Vittorio Emanuele II all’interno del Pantheon, il progetto del palazzo del Viminale, e contribuì a portare a termine il Vittoriano.

Realizzato in pietra bianca di Botticino, è alto 20 metri e si ispira alle forme dell’arte classica.

Su una base circolare con diametro di dieci metri si innalza una tozza colonna sovrastata da un capitello su cui corre la dedica: "A ROMA CAPITALE GLI ITALIANI D’ARGENTINA. MCMXI". Sopra al capitello è una sorta di ara circolare ornata da quattro erme con protomi leonine, collegate da festoni. Sopra a tutto, la lanterna, raggiungibile attraverso la scala a chiocciola che conduce al capitello e poi attraverso una scala a pioli di ferro. Nella base del Faro sono stati ricavati tre locali: l’atrio di ingresso alla scala e due ambienti di servizio e deposito, situati nello spazio circolare che corre intorno alla scala.

La balconata del Faro, che guarda verso il carcere di Regina Coeli, a cui è molto vicina in linea d’aria, era utilizzata fino a qualche tempo fa dai familiari dei detenuti per comunicare con i loro parenti: una pratica in effetti vietata, ma tollerata dalle forze dell’ordine, purché i messaggi riguardassero esclusivamente notizie importanti e urgenti.

di Annalisa Venditti

SPECIALE RISORGIMENTO - SPECCHIO ROMANO

 

 

EDIFICATA DA AURELIANO, TRASFORMATA DA URBANO VIII E RIFATTA DA PIO IX

Porta S. Pancrazio attraverso i secoli

La cinta muraria voluta nel III secolo dall’imperatore Aureliano racchiudeva anche buona parte del Trastevere in una sorta di grande triangolo con il vertice meridionale sul Gianicolo, dove si apriva la porta Aurelia, per far uscire la via omonima. Per la vicinanza con il sepolcro, le catacombe e poi la chiesa di San Pancrazio, fin dal V secolo prese il nome di porta San Pancrazio. Nelle sue vicinanze, allo sbocco dell’Acquedotto di Traiano, si trovavano i mulini pubblici, rimasti in funzione fino al tardo medioevo. Almeno fino al XV secolo, si usava concedere in appalto o in vendita a privati le porte cittadine, per la riscossione del pedaggio sul transito. Un documento dell’Archivio vaticano del 1474 rende noto che in quell’epoca la rata semestrale da pagare per l’appalto di porta San Pancrazio era di 25 fiorini: una somma piuttosto modesta, cui doveva corrispondere un altrettanto modesto traffico in entrata e uscita da quella porta.

Non sappiamo di preciso quale fosse la sua forma originaria. La pianta di Roma del Maggi del 1625 ce la mostra a un solo fornice affiancato da due torri, ma evidenzia anche il pessimo stato di conservazione di quel tratto di mura. Difatti, la porta fu quasi del tutto ricostruita qualche anno dopo, sotto il pontificato di Urbano VIII (1623-44), da Mattia de’ Rossi, discepolo di Gian Lorenzo Bernini, che conservò solo la controporta merlata, riconoscibile ancora nelle incisioni del Rossini del 1829.

Nel 1849 il Gianicolo fu teatro della drammatica difesa della Repubblica Romana dagli assalti delle truppe francesi del generale Oudinot. Il 13 giugno i cannoni francesi aprirono nella porta una grossa breccia. Tra coloro che accorsero a difenderla c’era la giovane Colomba Antonietti, che combatteva accanto al marito travestita da uomo e morì per una palla di cannone che la colpì di rimbalzo.

La porta venne presa nuovamente di mira il 21 giugno, quando i francesi iniziarono a sparare da distanza ravvicinata contro i suoi bastioni, aprendovi tre brecce. Il 24 giugno nell’assalto alle mura presso la porta uno dei primi a soccombere, ferito a morte, fu il diciassettenne Emilio Morosini. Quando la repubblica cadde, insieme con le speranze dei patrioti, nemmeno della porta restava molto in piedi.

Restaurato il governo pontificio, Pio IX incaricò della sua ricostruzione l’architetto Virginio Vespignani (1808 – 82), che la edificò nel 1854 nelle sobrie e solenni forme attuali. Sull’attico un’iscrizione latina in cui si legge: PORTAM PRAESIDIO URBIS IN IANICULO VERTICE / AB URBANO VIII PONT. MAX. EXTRUCTAM COMMUNITAM / BELLI IMPETU AN. CHRIST. MDCCCLIV DISIECTAM / PIUS IX PONT. MAXIMUS / TABERNA PRAESIDIARIS EXCEPIENDIS / DIAETA VECTIGALIBUS EXIGENDIS / RESTITUIT / ANNO DOMINI MDCCCLIV PONTIFICATUS VIII / ANGELI GALLI EQ TORQUATO PRAEFECTO AERARII CURATORI. La sua traduzione suona così: "Pio IX Pontefice Maximo nell'anno 1854, settimo del suo pontificato, ricostruì, come dimora per i soldati del presidio e come padiglione per esigere le gabelle, la porta fortificata costruita a presidio della città sulla sommità del Gianicolo dal Pontefice Maximo Urbano VIII, distrutta dall'impeto della guerra nel 1854, a cura di A. G. Torquato prefetto dell'erario".

La porta tornò alla ribalta delle cronache il 20 settembre del 1870, quando vi penetrarono le truppe del generale Bixio, in contemporanea ai bersaglieri che aprirono la breccia di Porta Pia.

Attualmente nella porta hanno sede l’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini e il Museo Garibaldino, dedicato anche alla Divisione italiana partigiana Garibaldi, attiva in Jugoslavia tra il 1943 e il 1945.

Nel vero e proprio Museo Garibaldino le pareti, le bacheche e le vetrine ospitano cimeli di vario tipo, alcuni dei quali relativi all’Eroe dei due Mondi e ai suoi familiari. Non mancano ricordi della Repubblica Romana e camicie rosse di ufficiali e di semplici soldati.

Il Museo attualmente è chiuso al pubblico per consentirne la risistemazione interna.

di Antonio Venditti e Cinzia Dal Maso

 

 

 

GLI AVVENIMENTI PIÙ TRAGICI E GLORIOSI SI VERIFICARONO A GIUGNO

La Repubblica Romana compie centosessanta anni

Il 9 febbraio del 1849 – 160 anni or sono - veniva proclamata la Repubblica Romana, una parentesi rivoluzionaria che avrebbe avuto vita breve e sarebbe caduta il 3 luglio sotto le bombe francesi del generale Oudinot. Proprio in questo mese di giugno ricorre l’anniversario dei giorni più caldi, tragici e gloriosi di quell’avventura. Nella notte tra sabato 2 e domenica 3 l’attacco dell’artiglieria francese prese di sorpresa gli avamposti e riuscì a conquistare il Convento di San Pancrazio e Villa Corsini, ossia il casino dei Quattro Venti. Alle prime luci dell’alba tutto il Gianicolo era un campo di battaglia, raggiunto fin dalle 5 del mattino dallo stesso Garibaldi. I combattimenti infuriavano soprattutto intorno a Villa Corsini, riconquistata e persa dai volontari numerose volte, come ricorda Cesare Pascarella: "S’entrava ner portone, pe’ le scale, / Pe’ le camere, fra le baricate / De sedie e tavolini, pe’ le sale, / A mozzichi, a spintoni, a sciabolate, / Co’ qualunqu’arma, come se poteva, / Fra fiamme, foco, strilli, sangue, morte, / Se cacciaveno via; se rivinceva; / Se rivinceva; ma nun ce fu verso / De spuntalla. Fu preso pe’ tre vorte / De fila e pe’ tre vorte fu riperso". In quegli inutili tentativi s’immolò tanta parte dei difensori di Roma: morirono Francesco Daverio, il ventiduenne Enrico Dandolo, Gaetano Bonnet, Angelo Masina. Tra i feriti Emilio Dandolo e Goffredo Mameli, colpito per errore dalla baionetta di un bersagliere, destinato a una lunghissima agonia per cancrena, che lo porterà alla morte il 6 luglio.

Avrebbe detto Garibaldi: "Il tre giugno decise della sorte di Roma...Il Vascello solo si sostenne fino all’ultimo, per la bravura di Medici e della sua gente; e quando si abbandonò alla fine, non rimaneva di quell’esteso edifizio che un mucchio di macerie".

Ascoltiamo ancora i versi di Pascarella: "Nun c’era più che Medici ar Vascello. / Er resto tutto quanto era perduto. / Nun ce restava in piede antro che quello. / Ma ce rimase lì fino a la fine: / Fin che er muro, li sassi, li mattoni, / Fin che le pietre de li cornicioni / Nun staveno giù drento a le cantine. / E lì, fra assarti, mine, contromine, / Tutti li reggimenti e li cannoni, / Fin che nun volle lui, non furno boni / De fallo scegne’ giù da le rovine. / Ché, dar principio che ce s’era messo, / Più loro li francesi ce provaveno / A cacciallo, e più lui sempre lo stesso. / Imperterrito sempre e sempre in cima / A le macerie, se lo ritrovaveno / ‘Gni giorno sempre lì peggio de prima".

Al 13 giugno si ascrive uno degli episodi più commoventi dell’epopea garibaldina. A Porta San Pancrazio, mentre tenta di riparare le barricate con sacchi di sabbia, un giovanissimo soldato viene colpito di rimbalzo da una palla di cannone che gli spezza le reni. Un ufficiale si getta su di lui in preda alla disperazione e gli copre il volto di baci. Il soldato è Colomba Antonietti, che si è tagliata i capelli e veste una divisa maschile per combattere al fianco del marito, il conte Luigi Porzi, l’ufficiale che da quel giorno vivrà nel culto della sposa persa così tragicamente. Garibaldi avrebbe malinconicamente confidato nelle sue memorie: "quella donna mi ricorda la mia povera Anita: anch’essa era sì tranquilla e sì coraggiosa in mezzo al fuoco".

I combattimenti sarebbero ripresi più aspri che mai il 27 e il 28 giugno. Il 29 Luciano Manara scrisse, riferendosi ai Francesi: "Vinceranno...Ma ogni maceria sarà difesa. Ogni rovina che copre cadaveri dei nostri è salita da altri che vi muoiono anziché cederla. Roma in questo momento è grande, grande come le sue memorie, come i monumenti che la ornano e che il barbaro sta bombardando". Alle due del mattino del 30 giugno i francesi attaccarono. Teatro degli scontri fu Villa Spada, sempre sul Gianicolo, dove caddero tra gli altri Emilio Morosini e Luciano Manara, spirato tra le braccia di Emilio Dandolo. Le cannonate degli assalitori rasero al suolo Porta San Pancrazio. Alle 10 di quello stesso giorno Mazzini riunì il consiglio della Repubblica a Palazzo Corsini alla Lungara. La decisione presa fu dolorosa ma inevitabile: "in nome di Dio e del popolo, l’Assemblea Costituente Romana cessa da una difesa resa impossibile e resta al suo posto".

 di Cinzia Dal Maso

SPECIALE RISORGIMENTO - SPECCHIO ROMANO

 

 

 

E’ DEDICATA AL GIOVANE CIOCIARO DOMENICO SUBIACO

La scalea del Tamburino

La rampa che da via Dandolo scende in viale Glorioso si chiama scalea del Tamburino, ma pochi sanno che è dedicata a un giovane ciociaro, Domenico Subiaco, nato a Ripi il 4 dicembre 1832 da due contadini, Giovanni e Angela Maria Paparelli. Appena sedicenne, nel 1849 volle essere tra i difensori della Repubblica Romana. Per la sua statura, non fu ritenuto adatto al combattimento. Non gli venne affidato un fucile, ma fu nominato tamburino del I Reggimento Fanteria e come tale prese parte a più di una battaglia. Nella fatidica giornata del 3 giugno era sul Gianicolo, sotto il fuoco del generale Oudinot.

Come racconta Ceccarius, Domenico suonò l’allarme e la carica. Poi, "al grido di ‘Viva l'Italia!’’"Viva Roma!’, raccolse il fucile di un soldato caduto al suo fianco, spianandolo contro il nemico, ma una palla francese lo colpì nel mezzo della fronte".

L’episodio è riferito anche da un testimone oculare, Camillo Ravioli: "dall’alto della porta di S. Pancrazio tirò a petto scoperto gettata l'uniforme - e lo vid’io nel mattino di quel giorno stesso 3 giugno - da dieci a dodici colpi contro i francesi che assalivano il bastione ottavo, facendosi porgere l'arma carica dai compagni che gli erano di sotto, finché una palla nemica lo colpì nel parietale sinistro e lo gettò rovescio e moribondo a basso".

Bisognò aspettare il 1891 perché la scalea presso il quale era caduto il ragazzo gli venisse dedicata. Poi nient’altro, nemmeno una targa con qualche nota biografica che aiuti a identificare il "tamburino".

Almeno la sua terra d’origine non è stata immemore e nella piazza della Libertà di Frosinone, in un monumento dello scultore Ernesto Biondi, Domenico Subiaco è raffigurato insieme a molti altri patrioti. Nel 1911 anche Ripi ha dedicato una lapide al suo "figlio eroico" che "giacque sedicenne" incitando "gli eroi di Roma" "contro lo straniero invasore". 

di Cinzia Dal Maso

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COSTRUITE DA URBANO VIII, CANNONEGGIATE DAI FRANCESI E RESTAURATE DA PIO IX

UNA PASSEGGIATA NELLA STORIA: 
LE MURA GIANICOLENSI

Durante la "Guerra di Castro" contro i Farnese, il papa Urbano VIII Barberini volle rinforzare le difese di Roma, che non risultava sufficientemente protetta nella parte a destra del Tevere. Le cosiddette mura Gianicolensi furono iniziate il 15 luglio del 1641 con una serie di misurazioni e condotte a termine a tempo di record, nel 1643. Il progetto fu affidato all’architetto militare Giulio Buratti e all’architetto Marcantonio De Rossi, che godeva della protezione della potentissima donna Olimpia Maidalchini. La nuova cinta mutò sostanzialmente il sistema delle murature preesistenti. La porta Santo Spirito e il vicino bastione del Sangallo divennero inutili, come la porta Settimiana. L’antica porta Portuensis, del recinto di Aureliano, che si trovava 453 metri oltre il nuovo muro, fu abbattuta e sostituita dalla porta Portese, che fu ultimata solo nel 1644, quando Urbano VIII era morto. Per questo reca lo stemma del suo successore, Innocenzo X. In corrispondenza della porta San Pancrazio, invece, il nuovo muro veniva praticamente a coincidere con quello di epoca romana. La porta però, in pessimo stato di conservazione, veniva quasi del tutto ricostruita. Il De Rossi conservò solo la controporta merlata, riconoscibile ancora nelle incisioni del Rossini del 1829. Si può seguire il tracciato delle mura partendo dalla parte più bassa, quella di porta Portese. Dopo un breve tratto diretto a nord-ovest, il muro si dirige verso sud-ovest e raggiunge largo Bernardino da Feltre, dove doveva incrociare la cinta di Aureliano. Nulla resta del bastione che si elevava in corrispondenza di viale Trastevere, vittima degli sventramenti di epoca umbertina. Il muro riprende lungo via Aurelio Saffi - dove risulta inizialmente piuttosto basso per l’innalzamento del piano stradale - e sale sulla collina di Monte Verde. Giunti a largo Berchet piega quasi ad angolo retto, costeggiato da viale delle Mura Gianicolensi. Da qui fino all’incrocio con via Fratelli Bonnet il muro racchiude il giardino di villa Sciarra e nell’area interna è solo parzialmente visibile, perché per la massima parte coperto da un terrapieno. A metà di questo percorso, nella gola tra due bastioni, si apre una posterula, utilizzata come ingresso secondario a villa Sciarra, attraversando la quale si può avere un’idea del notevole spessore della base del muro. Proprio a partire da largo Berchet il muro presenta tutta una serie di rattoppi, evidenziati da biffe bianche, che ricordano i restauri effettuati da Pio IX per chiudere le brecce aperte nel giugno del 1849 dai cannoneggiamenti dei francesi che assediavano la Repubblica Romana. Si può infatti vedere lo stemma di Pio IX con la data 1849 in numeri romani. Sulla parte di muro originario, invece, è ancora presente lo stemma di Urbano VIII con le api dei Barberini. Su via Fratelli Bonnet sono stati aperti – per ragioni di viabilità – due moderni fornici, i cosiddetti "Archi di villa Sciarra". Il muro riprende dunque a salire. Anche qui le lapidi testimoniano i danni prodotti dall’assedio francese. La prima, di Pio IX, reca gli stemmi Odescalchi, Mastai Ferretti e del Comune di Roma. Un’altra è stata apposta dopo l’unità d’Italia, il 4 giugno 1871, per onorare "la memoria di coloro che combattendo strenuamente caddero in difesa della patria". Si giunge quindi nel punto più elevato dell’intera fortificazione, a porta San Pancrazio, anch’essa distrutta dagli eventi bellici del 1849 e ricostruita nel 1854 dall’architetto Virginio Vespignani (1808 – 82), in forme sobrie e solenni. Il muro ora scende lungo il viale delle Mura Aurelie. Dopo il primo bastione si nota un’edicola in travertino con al centro una statua di Sant’Andrea, con un’iscrizione che ricorda come proprio in quel punto fosse stata ritrovata la testa di Sant’Andrea apostolo, abbandonata dal ladro che l’aveva trafugata.

Dopo circa un chilometro, il muro di Urbano VIII si congiunge al bastione fatto erigere nel 1568 da Pio V, presso l’attuale palazzo di Propaganda Fide e poco prima del largo di porta Cavalleggeri. In quest’ultimo tratto sono murati ben 12 stemmi di Urbano VIII e 3 di Pio IX.

di Cinzia Dal Maso

SPECIALE RISORGIMENTO - SPECCHIO ROMANO

 

 

IL 3 GIUGNO DEL 1849 GARIBALDINI E FRANCESI SI CONTESERO IL POSSESSO DI VILLA CORSINI

LA STORICA BATTAGLIA DEI QUATTRO VENTI

Il 15 maggio del 1849, la storia della Repubblica Romana sembrava essere giunta a una svolta. Era stata raggiunta quella che sembrava una vittoria della diplomazia di Mazzini: una tregua d’armi con i Francesi di 20 giorni, pattuita con il plenipotenziario Lesseps, cui seguì un trattato secondo il quale l’armata francese doveva essere considerata dai romani "un’armata amica che viene a concorrere alla difesa del loro territorio".

Il re francese Luigi Napoleone, però, la pensava diversamente. Il 29 maggio inviò due dispacci, uno al gen. Oudinot per ordinargli di procedere all’assalto di Roma e l’altro a Lesseps, intimandogli di tornare in Francia. Oudinot, secondo una sorta di codice cavalleresco dell’epoca, annunciò che avrebbe ripreso i combattimenti lunedì 4 giugno. Il generale, però, non fu di parola. Con un’azione che venne considerata un vero e proprio tradimento, nella notte tra il 2 e il 3 giugno due colonne francesi sorpresero i difensori nel sonno e si impadronirono delle ville Pamphili, Corsini e Valentini, tutte posizioni strategiche d grande importanza. Garibaldi, ancora sofferente per la caduta di Velletri, accorse sul Gianicolo la mattina del 3, arrivandovi alle 5 e mezzo. Con lui erano la legione italiana e i bersaglieri lombardi, che per tutta la giornata tentarono di recuperare le posizioni perdute, nonostante la loro incredibile inferiorità numerica. Particolarmente cruenti furono gli assalti a villa Corsini, conosciuta anche come il casino dei Quattro Venti, riconquistata e persa più volte. Durante un attacco dei lancieri morirono il generale Masina, vari soldati, il porta bandiera Pier Antonio Zamboni, il tenente aiutante Pietro Scalcerle e numerosi ufficiali del Galletti. Poco dopo fu la volta dei legionari guidati da Nino Bixio, che fu gravemente ferito. In uno degli assalti riportò ferite mortali Francesco Daverio, capo dello stato maggiore della legione. Tra le 8 e le 9 del mattino intervennero i bersaglieri lombardi di Luciano Manara, subendo enormi perdite. Quel giorno Goffredo Mameli riportò la feritaal ginocchio che lo avrebbe fatto morire di cancrena. All’epopea di villa Corsini Cesare Pascarella ha dedicato alcuni dei più bei versi della sua "Storia nostra": "Se seppe che er nemico era padrone / Già der casino de le Quattro Venti. / Pe’ riportaje via la posizione / Se cominciorno li combattimenti. / E dar primo momento che sorgeva / La luce, che s’uscì for da le Porte, / Fino all’ultimo che ce se vedeva, / Se fece tutto!...Ma non ce fu verso / De spuntalla! Fu preso pe’ tre vorte / De fila e pe’ tre vorte fu riperso. / Eppure, come daveno er segnale / (Mentre da le finestre e le ferrate / Veniva giù l’inferno!), dar viale / se rimontava su le scalinate; / S’entava ner portone, pe’ le scale, / Pe’ le camere, fra le baricate / De sedie e tavolini, pe’ le sale, / A mozzichi, a spintoni, a sciabolate, / Co’ qualunqu’arma, come se poteva, / Fra fiamme, foco, strilli, sangue, morte, / Se cacciaveno via; se rivinceva; / Se rivinceva; ma nun ce fu verso / De spuntalla. Fu preso pe’ tre vorte / de fila e pe’ tre vorte fu riperso. / L’urtima, er tetto in cima già fumava; / Travi, soffitti, mura s’abbruciaveno, / Pe’ le camere ormai se camminava / Su li morti che se carbonizzaveno; / E a ‘gni razzo, a ‘gni bomba che schioppava / Ne le camere che se sfracellaveno, / Mentre che se feriva e s’ammazzava, / Travi, soffitti...giù!, se sprofonnaveno. / E pure, sai? Finché nun fu distrutto, / Finché ce furno muri, scale, porte / Pe’ ripotecce entrà, se provò tutto; / Se provò tutto; ma nun ce fu verso / De spuntalla. Fu preso per tre vorte / De fila e pe’ tre vorte fu riperso".

Il casino dei Quattro Venti, con la sua caratteristica pianta quadrata con quattro ingressi al centro di ogni lato e salone centrale, era rimasto irrimediabilmente compromesso. Poco restava dei frontoni guarniti di ghirlande e dei vasi di fiori che il pittore olandese Jan Philip Koelman aveva visto splendere al mattino sotto i raggi del sole nascente. I suoi resti furono inglobati nell’Arco quadrifronte dei Quattro Venti, costruito tra il 1856 e il 1859 dall’architetto Andrea Busiri Vici, che oggi si innalza presso l’ingresso di villa Pamphili. L’arco riutilizza anche le strutture murarie del piano d’imposta e parte del mattonato. E’ decorato con statue dei venti e con lo stemma di papa Innocenzo X.

Recenti restauri hanno evidenziato anche alcune iscrizioni sui muri vergate nel 1849.

di Antonio Venditti e Cinzia Dal Maso

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Gli eroi della Repubblica Romana
e le loro memorie a Monteverde

In occasione del Centenario della proclamazione della Repubblica Romana, sono stati posti sul Gianicolo una serie di pannelli bronzei, per illustrare le vicende della difesa di Roma del 1849. Su questo colle, infatti, fu scritta una delle pagine più gloriose e tristi del Risorgimento italiano. L’esercito francese, comandato dal generale Oudinot, accorso in aiuto di Pio IX, forte di 36.000 uomini e 75 cannoni, iniziò ad attaccare alle tre del mattino del 3 giugno il settore del Gianicolo dove era acquartierato Garibaldi, il cui esercito, al comando di Roselli, contava 19.000 uomini accorsi da tutta l’Italia, pieni di buona volontà ma nella maggior parte dei casi scarsamente addestrati, con 100 vecchi cannoni, quasi tutti di piccolo calibro e con scarse munizioni. Cadde subito Villa Pamphili. Stessa sorte toccò a Villa Corsini, nella cui disperata difesa trovò la morte Enrico Dandolo. Goffredo Mameli, ferito nei pressi di San Pietro in Montorio, spirò dopo qualche giorno. La situazione si fece tragica non appena i Francesi, nella notte tra il 21 e il 22 giugno, riuscirono a rompere la prima linea. Reggeva ancora la posizione avanzata del Vascello, presidiata dalla divisione Medici. Scriveva Luciano Manara in una lettera del 29 giugno: “ogni maceria sarà difesa. Ogni rovina che copra i cadaveri dei nostri è salita da altri che vi muoiono piuttosto che cederla. Roma in questo momento è grande, grande come le sue memorie, come i monumenti che la ornano e che il barbaro sta bombardando”. Il giorno seguente, 30 giugno, i francesi travolgevano anche questa seconda linea. Luciano Manara era assediato con i suoi bersaglieri volontari a Villa Spada. “Una palla colpì il povero Luciano alla bocca dello stomaco e gli uscì dalla schiena”, ricordò Emilio Dandolo, fratello di Enrico. “Fece tre passi e io accorsi e lo presi in braccio. Ho pochi momenti da vivere, mi disse: ti raccomando i miei figli: e mi diede un bacio”. La situazione non era più sostenibile. L'Assemblea repubblicana ritenne impossibile continuare la difesa. Il 2 luglio Garibaldi invitò quanti volessero proseguire la lotta a seguirlo: “chi vuole continuare la guerra contro lo straniero venga con me. Non offro né paga, né quartiere, né provvigioni. Offro fame sete marce battaglie e morte". Quindi uscì da Roma con circa quattromila uomini, dirigendosi alla volta di Venezia. Il 3 luglio i Francesi occupavano la città.
Monteverde conserva numerose memorie di quei tragici avvenimenti: la Villa Doria Pamphilj, l’entrata di Villa Corsini, con le tracce delle palle di cannone francesi, Porta San Pancrazio, dove fu ferita mortalmente Colomba Antonietti, mentre combatteva, vestita da uomo, accanto al marito, l’antica osteria Scarpone, nelle cui gallerie sotterranee venivano provvisoriamente seppelliti i morti della battaglia per il Casino dei Quattro Venti, il convento di San Pancrazio, il Vascello, la “batteria dei pini”, ultimo baluardo garibaldino, dove oggi si innalza il Sacrario dei Caduti per la causa di Roma italiana.

di Cinzia Dal Maso

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SANTA MARINELLA FU FONDATA
 GRAZIE A GARIBALDI


Fu Giuseppe Garibaldi, l’Eroe dei Due Mondi, a consigliare il principe Baldassarre Odescalchi di trasformare il tratto di spiaggia antistante il suo castello in una località di villeggiatura. Nacque così Santa Marinella, destinata a un rapido e fortunato sviluppo.

Lo stemma, moderno, presenta un’ancora e una bella rocca in riva al mare. Un richiamo alle antiche origini è la scritta "Ad Punicum", riferita al porto di Caere che si trovava nel suo territorio e testimonia, con il suo nome, stretti legami con i Cartaginesi e la loro stessa presenza sul luogo, già documentata dal non lontano Santuario di Pyrgi. Qui in epoca romana sorsero numerose ville marittime, tra cui quella appartenuta al senatore Cn. Domizio Annio Ulpiano.

di Cinzia Dal Maso

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LE VACANZE DI GARIBALDI A CIVITAVECCHIA

Giuseppe Garibaldi, dopo l’unità d’Italia, amava trascorrere le vacanze estive a Civitavecchia. Uno dei suoi stabilimenti balneari preferiti era il "Bruzzesi", realizzato su un isolotto da Giuseppe, zio del colonnello garibaldino Giacinto Bruzzesi, originario di Cerveteri. L’Eroe dei Due Mondi vi sostava volentieri, infervorandosi anche in qualche conversazione politica. Nel 1879, tormentato dai reumatismi, vi cercò un sollievo nelle sabbiature. Al "Bruzzesi" Clelia, la figlia che Garibaldi aveva avuto da Francesca Armosino, imparò a nuotare, dando anche prova di coraggio nel salvare un giovinetto come lei, in procinto di annegare.

Alla fine dell’Ottocento, lo stabilimento cambiò proprietario e assunse il nome di Pirgo, che evocava le origini etrusche della zona. Vi fu persino realizzato un elegante teatro. Continuò ad attirare una clientela ricca e selezionata, fino alla seconda guerra mondiale, poi la vita dello stabilimento proseguì in tono minore. Negli anni ’60 si ebbe l’abbandono e nel 1995, per motivi di sicurezza, furono abbattute lo poche strutture ancora in piedi.

di Cinzia Dal Maso

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