Cosa
rende un classico aderente a queste definizione?
Prima di tutto la
sua capacità di essere contemporaneo a ogni epoca.
Con questa
riflessione siamo usciti dalle prove generali di uno spettacolo andato in scena
a Roma in questi giorni: "'Il Tabulè di Tito'' della compagnia Paltò Sbiancato.
Il regista Stefano
Palmitessa ha lavorato sul ''Tito Andronico'' di Shakespeare ispirandosi
liberamente all’opera per entrare nel cuore di una tragedia senza tempo in cui
la vendetta è la più mortifera delle armi. Una sperimentazione la sua in cui
l’attore si fa maschera, la gestualità forza motrice, la mimica espressione
grottesca e pura. Si rimane incantati nel seguire la trama di una storia nota e
rivissuta in una chiave per molti versi spiazzante, emotivamente più vicina alla
grammatica interna di un quadro astratto che moltiplica le interpretazioni
del reale e le concretizza nel coacervo di riflessi generati. Il ritmo narrativo
sposa quello coreografico e la scena pullula di corpi in attesa dell’estremo
sacrificio: l’obolo da offrire alla mostruosa vendetta. Gli abiti moderni,
sovraccaricati dagli accessori e dal trucco, sono il giusto pendant di un
allestimento studiato per rielaborare il classico e adattarlo a una misura nuova
che sappia dialogare con il contemporaneo accendendo scintille, creando
cortocircuiti disarmanti, belli da sentire e da vedere. La regia di Palmitessa
corteggia il suono delle parole, la prospettiva degli sguardi. Lavora sui
movimenti perché li considera l’impalcatura del suo spettacolo, le ossa dei suoi
attori, tutti abilissimi nell’animare questo gioco scenico crudele e dalle
conseguenze tragiche, oseremmo dire, primitive. Speriamo, presto, in replica.