Agostino Chigi vi svolse un’intensa attività finanziaria

All’Arco dei Banchi i prestiti su pegno

Al suo fondaco, che custodì piccole e immense fortune, si rivolsero numerosi esponenti delle famiglie principesche romane

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di Antonio Venditti

Nel XV secolo, quando la Basilica di San Pietro divenne il centro politico, morale e religioso di Roma, il sistema viario si orientò verso Ponte Sant’Angelo - l’unico che unisse la città al Vaticano - di fronte al quale si aprivano la breve "Platea Pontis", la via "Papalis" e quella "Recta". Uno schema a raggiera, presente negli Statuti edilizi dì Nicola V del 1452, che rimase fondamentale nel sistema urbanistico di Roma fino a quando non fu aperto Corso Vittorio che sconvolse la topografia della zona.

Via Arco dei Banchi, che unisce via Paola con via del Banco di Santo Spirito, è un breve tratto a ridosso di Corso Vittorio, anonimo, senza vita. dimenticato, che non suscita emozioni, né evoca ricordi, nonostante abbia ospitato le magnificenze della Corte di Agostino Chigi (1465-1520), il "gran mercante della cristianità", che qui svolse la sua enorme attività finanziaria. Una fortunata circostanza ha conservato fino ad oggi quasi immutata quest’area, mentre l’intera regione dei Banchi, dove si stabilì fin dall’XI secolo una colonia di banchieri fiorentini, è stata quasi completamente stravolta dalle innovazioni urbanistiche.

Via dell’Arco dei Banchi non ricorda affatto la piccola folla di figure, alcune caratteristiche, che lo animarono a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Qui aveva la bottega di barbiere Eustachio Pachaudi, di Malines, che si qualificava "cerusico ossia perpetuo protomedico nelle parti della Gallia di un officio di chirurgia e di barberia a lui stesso dato e concesso dal cristianissimo Lodovico re di Francia undicesimo". La sua abitazione e quella adiacente appartenevano a Lucrezia, moglie di Cesare di Branco, capitano al soldo del re di Francia: un viottolo le separava dal convento delle monache di S. Elisabetta. Girolamo de Guelfi, esattore di dogana e lo scultore Bernardo di Jacopo erano i vicini di casa del cavalier Domenico de’ Tassi, maestro delle Poste; i mercanti Magnuolo e Giovanni de Herrera occupavano rispettivamente la settima e ottava casa, mentre la nona, più grande di tutti, fu quella dei Chigi, che diede il nome al luogo. Sorgeva sulla sinistra di chi entrava nella corte e, incorporando l’Arco, si affacciava sulla via dei Banchi. L’Arco venne a costituire la porta dei Chigi (Porticus Chisia vel porta), così come indicato dall’Ugonio e registrato nello "Stato delle anime" del ‘600 della parrocchia di San Giovanni de’ Fiorentini. Immetteva in uno slargo, un cortile, dove Agostino, che aveva il suo fondaco, fece innalzare nel fondo, verso la via Paola, un grosso muro. L’edificio dei Chigi era una imponente e irregolare costruzione. Nell’ampio cortile una grotta accoglieva una cisterna d’acqua potabile intorno alla quale si radunavano i clienti a trattare gli affari. Non è difficile immaginare il continuo andirivieni degli addetti al banco, l’affaccendarsi dei valletti e delle fantesche che servivano nella casa: un vero esercito di domestici, in prevalenza senesi, tra cui quelli impegnati a sellare i famosi cavalli del "Magnifico" banchiere. Sulla corte si affacciavano le finestre del suo appartamento privato, celebre per il lusso straordinario. Un cronista contemporaneo riferisce di letti intarsiati di ebano, oro e pietre preziose, coltri ricamate in oro, affreschi, quadri, statue, e arazzi. Nel soffitto di una stanza dello stabile si leggeva una serie di motti latini: La casa umile offre sonni tranquilli", "Perché pensi al male? Non sai per quale fine io agisco così";"l’ira e la fretta non sono adatte per prendere decisioni"; "Sopportare l’invidia della gente fa parte dell’arte di governare : "La fortuna non è altro che un medico inconsapevole"; "Se vuoi che l’altro taccia, stai zitto tu per primo".

All’inizio dell’Arco, su uno dei piedritti, in basso, è incassata a sinistra una pietra sulla quale, a caratteri semigotici, è una iscrizione che ricorda la piena del Tevere del 1277. Il livello raggiunto dalle acque è segnato da una linea incisa clic divide l’epigrafe in due parti. E’ il più antico ricordo delle inondazioni tiberine. L’iscrizione in origine si leggeva sotto il portico della primitiva chiesa dei Santi Celso e Giuliano - dove offriva l’effettiva idea della quota raggiunta dal fiume — situata sulla piazza di Ponte, uno dei più importanti centri di vita cittadina a partire dal medioevo. Per il ripetersi degli allagamenti del "Canale di Ponte", la strada dove durante le piene del Tevere l’acqua precipitava come lungo un canale, la chiesa venne demolita e successivamente ricostruita per ben due volte, nel 1535 e nel 1735, su via del Banco di Santo Spirito.

Ecco il testo dell’ iscrizione: "Huc. Tiber / accessit . set. turbi / dus hinc. / cito. cessit / anno Domini M.CC. LXXVII / ind VI. m no/vemb die VII. / eccl a vac/ante". ("Qui arrivò il Tevere, ma torbido; di qui sollecitamente si ritirò / l’anno del Signore 1277, nella sesta indizione, il settimo giorno del mese di novembre; la chiesa era vacante": infatti era morto Giovanni XXI e ancora non era stato eletto Niccolò III).

Sotto l’Arco si venerava nel Cinquecento una bella scultura della Vergine che fu asportata e non più trovata: venne rimpiazzata nell’Ottocento da un grande quadro ad olio di buona fattura, ancor oggi molto venerato, con l’immagine della Madonna. L’ incorniciatura non presenta alcun motivo di interesse.

Gregorio XIII (1572-85) manifestò l’intenzione di far costruire nel cortile dei Chigi una Loggia dei Mercanti "per potersi ricoverare dalle piogge et caldi", come testimoniano due progetti di Ottaviano Mascherino del 1573, che, pero, non vennero realizzati. Qui nel 1582 Gian Leonardo Ceruso, detto "il Litterato", iniziò il suo apostolato a sostegno dei ragazzi abbandonati. La via fu poi sbarrata da una catena e perciò detta "via della Catena di Banchi" e, più tardi, anche "Fontanella de’ Banchi per un gettio di acqua che vi era". Lo stanzone del Banco Chigi, quasi a metà della lunghezza della strada, al n. 9, conobbe nel corso dei secoli una triste decadenza. Dapprima fu adibito a stalla, successivamente a deposito di legna da ardere, a garage di automobili e a deposito di materiale di elettricità.


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